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Cento anni fa, le unità armate della prima repubblica dell’Azerbaigian hanno tentato di risolvere il problema del Karabakh che era già stato inserito nell’agenda internazionale, usando la forza e l’uccisione di massa della popolazione civile

A partire dal 22-23 marzo e per almeno una decina di giorni, più di ventimila armeni furono trucidati dalle orde azere o costretti a lasciare la città di Sushi; tutta la parte armena della quale fu rasa al suolo e incendiata.

Le antiche mura di Sushi furono riempite con i corpi di donne e bambini.

Sushi, un importante centro economico, spirituale e culturale della regione, chiamata all’epoca la “Parigi del Caucaso“, fu sottoposta a indicibili violenze nel più classico stile turco-azero. Queste atrocità, commesse con una crudeltà senza precedenti, furono guidate da Khosrov bey Sultanov, che in seguito, durante la seconda guerra mondiale, partecipò attivamente alla formazione della legione azera nei ranghi delle truppe naziste.

Dei circa 40.000 abitanti, la metà furono trucidati; decine di chiese e monumenti armeni furono distrutti. La furia genocidiaria si estese anche ad altri territori dell’Artsakh.

Tuttavia, il piano di rendere Artsakh una parte della prima repubblica dell’Azerbaigian con la spada e il fuoco fallì. A Sushi come in tutte le altre località nelle quali la violenza azera cercò di annientare la fierezza del popolo armeno e il diritto all’autodeterminazione. Tutta la popolazione armena valida (con l’aiuto anche di alcune milizie volontarie provenienti dal Zangezur (Syunik) allestì una strenua difesa e ricacciò indietro gli invasori mantenendo integra, sia pure a carissimo prezzo, la propria sovranità nazionale.

Nel mese di aprile 1920, il nono Congresso del popolo ancora una volta proclamò solennemente l’Artsakh come parte essenziale dell’Armenia.

Ora, un secolo dopo, rendiamo omaggio alla memoria di tutte le vittime innocenti e ribadiamo la determinazione del popolo armeno a vivere e prosperare in una patria libera e in pace.

«Prendendo atto dell’attuale sospensione delle operazioni di monitoraggio da parte del Rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE a causa dell’eccezionale situazione creata dalla diffusione di COVID-19, i copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE (Igor Popov della Federazione Russa, Stéphane Visconti della Francia e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America) fanno appello alle parti per riaffermare il loro impegno a osservare rigorosamente il cessate il fuoco e ad astenersi da qualsiasi azione provocatoria che possa aumentare ulteriormente le tensioni durante questo periodo»

Questo si legge in una nota diffusa dal Gruppo di Minsk dell’Organizzazione.

«Riconoscendo che le risorse mediche della regione dovrebbero essere dedicate esclusivamente alla lotta contro la diffusione del virus e al trattamento delle persone colpite, esortiamo le parti a esercitare la massima moderazione possibile per ridurre il rischio di escalation, anche sfruttando al massimo i collegamenti di comunicazione diretta esistenti . Nonostante le pesanti restrizioni ai viaggi internazionali, i co-presidenti continueranno i loro sforzi di mediazione senza interruzione, restando in stretto contatto tra loro e con le parti».

Trentadue anni fa, il 27-29 febbraio 1988, le autorità della Repubblica Socialista Sovietica Azera hanno perpetrato il massacro e la deportazione forzata della popolazione armena nella città di Sumgait, accompagnata da atrocità commesse con crudeltà senza precedenti. Il Dipartimento per l’informazione e le relazioni pubbliche del Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh) lo ha osservato in un commento sul 32° anniversario del massacro degli armeni a Sumgait, Azerbaigian.

«I tre giorni di pestaggi di massa, omicidi e atti violenti sono stati la risposta delle autorità di Baku alle pacifiche e legittime richieste degli armeni di Artsakh (Karabakh) di realizzare il loro diritto inalienabile all’autodeterminazione», si legge anche nel commento. «Vi sono ampie prove che i massacri degli armeni a Sumgait sono stati accuratamente preparati e pianificati dalle autorità azere. Parlando alle manifestazioni tenute alla vigilia dei massacri, rappresentanti di alto rango delle autorità cittadine hanno invitato la folla a punire gli armeni e hanno chiesto “di uccidere e deportarli da Sumgait e dall’intero Azerbaigian”. Quasi ogni discorso si è concluso con il canto di “Morte agli armeni!“. Tra l’ovvia inazione delle autorità e delle forze dell’ordine, oltre a essere guidati da queste ultime, centinaia di azeri a Sumgait, ispirati alle richieste di odio e violenza contro gli armeni, hanno iniziato attacchi senza impedimenti agli appartamenti degli armeni che vivono a Sumgait, utilizzando gli elenchi di indirizzi a loro disposizione.

L’impunità dei veri organizzatori e autori dei crimini contro l’umanità commessi a Sumgait ha creato un terreno fertile per la pulizia etnica degli armeni in tutto la Repubblica Socialista Sovietica Azera negli anni successivi – a Kirovabad, Baku e in un certo numero di altre città popolate di armeni. Migliaia di armeni sono diventati vittime di questa politica e centinaia di migliaia sono diventati rifugiati.

Attualmente, purtroppo, le autorità azere continuano la loro politica di incitamento all’odio e alla xenofobia contro gli armeni, eroizzando e glorificando l’ufficiale azero che ha brutalmente ucciso un ufficiale armeno in Ungheria nel 2004. Un’altra manifestazione di tale politica è diventata la gratificazione dell’ufficiale azero dal presidente dell’Azerbaigian per aver decapitato un militare dell’Esercito di difesa Artsakh durante la guerra di aprile del 2016 scatenata contro la Repubblica di Artsakh, nonché le gravi violazioni delle norme del diritto umanitario e dei crimini di guerra commessi dalle forze armate azere.

Ci inchiniamo al ricordo delle vittime innocenti del crimine di Sumgait. La comunità internazionale dovrebbe condannare e fornire una valutazione chiara e inequivocabile delle azioni di genocidio commesse dalle autorità azere contro la pacifica popolazione armena, che non solo impedirà la ripetizione di tali atrocità in futuro, ma contribuirà anche a sanare la situazione in Azerbaigian.»

(traduzione e grassetto redazionale)

East journal, 26 febbraio 2020 di Eugenia Fabbri

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Il Nagorno Karabakh è spesso considerato la bomba ad orologeria del Caucaso. Il conflitto che lo dilania da ormai trent’anni non è mai stato davvero congelato e sembra improbabile che nel breve periodo venga ristabilita la pace, anche a causa del frammentato coinvolgimento delle potenze internazionali, che utilizzano il conflitto per perseguire i propri interessi.

Il coinvolgimento ambiguo della Russia

La Russia è certamente il paese terzo più coinvolto e, insieme a Francia e Stati Uniti, presiede il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro creata nel 1992 per tentare di ristabilire la pace. Mosca è considerata un attore essenzialmente filo-armeno: i due paesi sono membri di diverse organizzazioni internazionali e fanno parte di una formale alleanza militare, il CSTO. Tuttavia, la Russia, pur garantendo assistenza militare a Yerevan, coltiva con l’Azerbaijan relazioni che includono la vendita di armi, da Baku chiaramente utilizzate anche nel confronto militare con l’Armenia. Tale ambivalenza è dovuta alla completa dipendenza in termini militari energetici e infrastrutturali di Yerevan nei confronti della Russia. Ciò permette a Mosca di perseguire la propria politica estera in completa autonomia, senza temere alcuna ripercussione da parte dell’Armenia.

La storica amicizia tra Turchia e Azerbaijan

Tra Turchia e Azerbaijan vi è un legame profondissimo, non solo politico, ma anche culturale. Sono entrambi paesi islamici e di lingua turca e la somiglianza tra i due popoli è tale che l’ex presidente azero Heydar Aliyev ha definito i due paesi “una nazione con due stati”. Sebbene inizialmente Ankara si fosse astenuta dal prendere posizioni nette nel conflitto, considerandolo una mera vicissitudine interna allo spazio post-sovietico, dal 1993 il suo avvicinamento a Baku è divenuto lampante: il confine tra Turchia e Armenia è stato chiuso e tra i due paesi non vi è ancora oggi alcun tipo di relazione diplomatica.

Iran, un possibile mediatore?

L’Iran è l’unica potenza regionale che potrebbe desiderare il raggiungimento di una pace che non comporti la vittoria unilaterale di uno dei due paesi sull’altro. Teheran è interessata ad evitare possibili escalation del conflitto, che potrebbero causare ulteriori flussi di rifugiati in un paese che non solo già ne ospita milioni, che presenta anche nel proprio territorio un’enorme minoranza azera.

Stati Uniti: tra pressioni interne e interesse nazionale

Il punto di vista statunitense sul conflitto è mutato nel tempo. In un primo momento hanno mantenuto una posizione filo-armena, chiaramente comprensibile dall’esclusione dell’Azerbaijan dal Freedom Support Act, un programma di aiuti varato da Washington nel 1992 a sostegno delle ex repubbliche sovietiche. La crescente rilevanza strategica dall’Azerbaijan, tuttavia, ha indotto gli USA a modificare la propria posizione, abolendo tale discriminazione nel 2001 e intraprendendo una politica dell’equilibrio che comporta il supporto finanziario di entrambi i paesi.

Quali prospettive di pace?

Tale coinvolgimento, multilaterale ed estremamente differenziato, impedisce ad oggi particolari sviluppi del conflitto. Anche un cambiamento negli assetti strategici internazionali che portasse al prevalere di uno dei due stati sull’altro probabilmente non sarebbe di per sé risolutivo e le relazioni tra i due paesi resterebbero congelate dalla frustrazione dello sconfitto. Di particolare interesse è un piano, avanzato nel 1992 dall’analista americano Paul Goble, che prevedeva una reciproca cessione territoriale, in seguito alla quale l’Armenia avrebbe rinunciato ai territori a maggioranza azera e alla striscia di terra che separa l’Azerbaijan dal Nakhchivan, ottenendo in cambio il definitivo controllo del Nagorno.

Tale compromesso fallì, fu l’Armenia in primis a rifiutarlo poiché avrebbe comportato la perdita del confine con l’Iran. Questo è un segnale importante, che richiama l’attenzione al ruolo che, al là dei delicati equilibri della politica internazionale, la disponibilità a collaborare tra i due attori direttamente coinvolti potrebbe avere nella risoluzione del conflitto. Probabilmente la vera chiave per ristabilire la pace nella regione è proprio lavorare sulla disponibilità dei due paesi a mediare, per giungere ad un compresso che a nessuno paia troppo iniquo.

– Il premier dell’Armenia ritorna in argomento riguardo l’incontro con il presidente azero e il successivo pubblico dibattito a Monaco di Baviera affermando che la discussione abbia rappresentato un punto di svolta.

«Da maggio 2018, l’Azerbaigian ha cercato di convincere l’intera comunità internazionale che l’Armenia ha una posizione distruttiva sulla questione del Karabakh» ha affermato. «Questa conversazione [di Monaco, NdR] ha chiaramente dimostrato alla comunità internazionale che l’Armenia ha una posizione costruttiva sulla questione del Karabakh, mentre l’Azerbaigian ha una posizione distruttiva, persino razzista, sulla questione del Karabakh; questo è il risultato più importante

Per il Primo Ministro, il secondo risultato più importante è che ha adempiuto una delle sue più importanti promesse al popolo armeno. «Ho detto che non avrò segreti del popolo armeno nel processo di negoziazione sulla questione del Karabakh» ha osservato Pashinyan. «L’intero popolo armeno deve essere consapevole del contenuto della questione del Karabakh».

Inoltre, ha detto, è successa una cosa molto importante a seguito di quell’incontro: «È in fase di elaborazione un nuovo contenuto dei negoziati sulla questione del Karabakh, che per convenzione chiamo Principi di Monaco».

Nikol Pashinyan ha sottolineato che se esiste una proposta per uno strumento di sicurezza altrettanto efficace, tale proposta dovrebbe essere formulata e il popolo armeno discuterà se sia accettabile o meno per loro. «Diciamo che questo status quo, quando è stato formato, quando le forze di autodifesa di Artsakh hanno preso il controllo di quei territori [i territori fuori dalla oblast del Nagorno Karabakh, NdR], hanno fatto in modo che le azioni aggressive dell’Azerbaigian venissero allontanate dal Nagorno-Karabakh per quanto possibile per renderle inaccessibili. Se esiste una proposta per uno strumento di sicurezza ugualmente efficace, sia formulata tale proposta e il popolo armeno discuterà se sia accettabile o meno per esso».

Il Primo Ministro armeno ha ribadito che il Nagorno Karabakh ha ottenuto l’indipendenza proprio come l’Azerbaigian. «Quando parlano del principio di integrità territoriale, parlano del principio di integrità territoriale di quale paese?» chiede Pashinyan che aggiunge. «Quando l’Azerbaigian ottenne l’indipendenza, mantenne l’integrità territoriale dell’Unione Sovietica? Una contro domanda può essere espressa considerando che lo stato dell’Unione Sovietica non esiste più. Ma anche lo stato in cui Nagorno Karabakh faceva parte non esiste più; quello stato era la Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian. Questo discorso ha sottigliezze che devono essere prese in considerazione».

Queste le dichiarazioni alla televisione pubblica dell’Armenia

(traduzione redazionale)

Il premier armeno Pashinyan illustra chiaramente le linee guida per arrivare a un accordo di pace risolutivo del conflitto del Nagorno Karabakh-Artsakh. Lo fa a margine della 56a Conferenza sulla sicurezza, tenutasi a Monaco di Baviera, dopo un incontro faccia a faccia con il presidente dell’Azerbaigian Aliyev e nel corso di un pubblico dibattito.

Sei sono i punti enunciati da Pashinyan:

  1. Il Nagorno Karabakh ha ottenuto l’indipendenza proprio come fece l’Azerbaigian nel 1991.
  2. Il Nagorno Karabakh è parte del conflitto e quindi dei negoziati; non è possibile risolvere il conflitto senza negoziazione con il Karabakh.
  3. Non è un problema di “territorio”, è un problema di sicurezza“; Il Nagorno Karabakh non può comprometterne la propria.
  4. Non è possibile risolvere il conflitto con due azioni, i colloqui richiedono “macro rivoluzioni“, poi delle “mini rivoluzioni” e quindi una svolta.
  5. Qualsiasi soluzione deve essere accettabile per il popolo dell’Armenia, per il popolo del Karabakh e per il popolo dell’Azerbaigian. I popoli dell’Armenia e del Karabakh sono pronti a compiere sforzi per raggiungere una soluzione. Anche l’Azerbaigian deve esprimere prontezza al riguardo.
  6. Non esiste una soluzione militare. Se qualcuno dice che esiste una soluzione militare, il popolo del Karabakh risponderebbe che il problema è stato risolto molto tempo fa .

Nel suo intervento, sostanzialmente Pashinyan enuncia tre concetti di fondo che devono essere la base del negoziato.

In primo luogo, la situazione attuale è irreversibile; l’Artsakh è un’entità indipendente al pari dell’attuale repubblica di Azerbaigian così come formatasi nel corso del processo di dissoluzione dell’Unione sovietica.

In secondo luogo, è arrivato il momento che Stepanakert sieda al tavolo negoziale perchè in gioco c’è il suo futuro e la sua sicurezza. Spetta anche all’Artsakh prendere decisioni essendo evidente che la disputa non è meramente territoriale ma riguarda appunto il diritto alla sopravvivenza della piccola repubblica armena. Un territorio completamente circondato dall’Azerbaigian (con il solo cordone ombellicale del corridoio di Berdzor) sarebbe fortemente a rischio di sopraffazione da parte del nemico.

In terzo luogo, Pashinyan ha ricordato ad Aliyev che qualsiasi velleità bellica da parte dell’Azerbaigian avrebbe conseguenze negative per Baku come la storia del conflitto negli anni Novanta ha chiaramente dimostrato.

Voci globali, 15 gennaio 2020, di Violetta Silvestri

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Ci sono piccoli territori nel mondo quasi dimenticati, o sconosciuti, dove la storia di scontri etnici continua a scrivere le sue pagine. Uno di questi è il Nagorno Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, incuneata nel territorio del Caucaso, intrappolata all’interno dell’Azerbaigian e stretta tra Armenia e Iran.

Indipendente de facto, con Stepanakert centro del potere politico, a livello giuridico resta territorio nazionale azero. Nessun Paese del mondo e nessuna organizzazione internazionale ha riconosciuto lo Stato come indipendente. Sullo sfondo, infatti, c’è una lunga e irrisolta guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio.

La sua incessante ricerca di un proprio spazio politico, economico e di potere indipendente dai vicini rivali – Armenia e Azerbaigian – va avanti. Le prossime elezioni di aprile 2020 si preannunciano cruciali per la piccola e sconosciuta Repubblica dell’Artsakh.

Molta speranza è riposta in questa tornata elettorale. Si prevede, infatti, che il voto sarà il più libero nella storia del Karabakh, con più spazio per l’opposizione e meno interferenze da parte di Yerevan. L’opportunità è quella di diventare un Paese normale, mettendo fine anche all’influenza – ingerenza per molti cittadini del Karabakh – della stessa Armenia, alleata storica. Una strada piuttosto difficile, visto che questa piccola porzione di territorio rivendica la sua origine etnica armena e, addirittura, tra i candidati c’è chi sbandiera la soluzione dell’unificazione con Yerevan.
Un quadro complesso, quindi, che soltanto la Storia e l’osservazione della collocazione geografica possono in parte spiegare. La regione è a maggioranza armena che ne rivendica l’appartenenza, mentre Baku la considera parte inseparabile della propria nazione. Il Nagorno Karabakh rientra nei classici casi di geografia politica da manuale: è un’enclave per gli azeri (poiché si trova su quel territorio ma non si sottopone alla sua giurisdizione) e un’exclave per l’Armenia (la popolazione è a maggioranza armena ma la regione è staccata geograficamente dallo Stato di Yerevan).

In questo intricato scenario emergono i rigurgiti etnici della dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. E, soprattutto, sono ancora vivi i segni di anni di guerra civile mai completamente sopita. Per questo, uno dei propositi del 2020 nell’intricato quadro del Caucaso è proprio il raggiungimento di un’intesa – e della pace definitiva – tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh, per definire status e assetti dell’intera regione, scongiurando il pericolo di altri nuovi conflitti.

Per comprendere i motivi dei rapporti ancora molto tesi in questa aerea del Caucaso, bisogna tornare alla storia dei primi decenni del 1900. Il Nagorno Karabakh, popolato da armeni cristiani e da turchi azeri, è stato prima parte dell’Impero russo. Poi, dopo contese tra Armenia e Azerbaigian, nel 1920 il territorio è conquistato dai bolscevichi. Nel 1923 è diventato regione autonoma sotto il controllo dell’Azerbaigian, per volere di Stalin.

I venti di guerra sono arrivati nei concitati anni della dissoluzione dell’URSS. Dopo accese rivendicazioni tra il 1989 e il 1990 tra Yerevan e Baku – che si sono tradotte anche in drammatici episodi di vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze azere e armene nei due Stati – nel 1991 il Nagorno Karabakh ha dichiarato la sua indipendenza dopo un referendum.

La decisione, unilaterale e appoggiata soltanto dall’Armenia, ha di fatto innescato la guerra civile tra il 1992 e il 1994. Il bilancio è stato drammatico, senza portare a nessuna risoluzione duratura e condivisa. I morti sono stati circa 30.000 e i profughi 1 milione. Il cessate il fuoco e l’accordo, sostenuto dalla Russia, hanno decretato la vittoria dell’esercito armeno, a cui spettava il controllo sul Karabakh. Nella realtà, però, l’intesa non è stata mai ratificata.

Le conseguenze sono visibili ancora oggi. La tensione non è mai davvero finita, alimentata dai ricordi di pulizie etniche da entrambe le parti. E il problema della convivenza tra azeri e armeni in questa regione è di stretta attualità.

Lo stallo che dura da decenni è stato più volte interrotto dalla violazione del cessate il fuoco dall’una e dall’altra parte, con episodi di violenza. Nemmeno la creazione del cosiddetto gruppo di Minsk nel 1992 ha portato i frutti sperati. 12 nazioni guidate da Francia, Stati Uniti e Russia hanno lavorato con le parti in lotta per trovare una soluzione condivisa e duratura.

Nel 2016 ci sono stati nuovi scontri con uccisioni di centinaia di persone, che hanno gettato nuovamente nello sconforto chi sperava in una ripresa costruttiva dei negoziati. Deboli ma preziose speranze si sono riaccese nel corso del 2019.

A sostenere maggiormente le speranze di una svolta è stata l’elezione come Presidente armeno di Nikol Pashinyan nel corso della rivoluzione di velluto, un uomo considerato nuovo, con una storia alle spalle di rivolte per il cambiamento del proprio Paese, non contro le forze azere per la conquista del Karabakh.

Il  Governo di Yerevan ha dichiarato di essere pronto a cercare una soluzione di compromesso e Baku sembrava essere più aperta. Nel corso del 2019, infatti, ci sono stati diversi incontri tra le autorità dei due Stati rivali (almeno quattro stando alle cronache ufficiali) nei quali il clima è apparso più disteso e conciliante, proteso verso la ricerca di un dialogo e l’allontanamento della violenza.

I Governi armeno e azero hanno concordato di avviare progetti umanitari e di lasciare che giornalisti e parenti visitino i detenuti nelle rispettive capitali.

Ma il riavvicinamento non ha portato a soluzioni concrete e pienamente condivise. Soprattutto per quanto riguarda il ritiro delle forze militari armene nei territori rivendicati dall’Azerbaigian e la questione dell’integrità territoriale nazionale azera.

Yerevan, Baku e le autorità nella capitale del Nagorno-Karabakh Stepanakert continuano a fare richieste senza voler scendere a compromessi. Il principale nodo da sciogliere è sempre lo stesso: lo status della Repubblica dell’Artsakh.

L’Armenia appoggia la creazione e il riconoscimento di uno Stato indipendente. Baku è al massimo pronto a offrire l’autogoverno del Nagorno-Karabakh in Azerbaigian. Resta molto caldo anche il tema – e l’emergenza – dei territori adiacenti alla regione contesa. Gli azeri sono fuggiti da queste aree durante la guerra.

I coloni – per lo più armeni sfollati dallo stesso Azerbaigian – si sono di fatto trasferiti qui, con un piano di colonizzazione. Stepanakert, infatti, finanzia insediamenti che si sono espansi nella maggior parte dell’area tra Armenia e Nagorno-Karabakh. I coloni contribuiscono in modo significativo all’economia della regione separatista, principalmente attraverso l’agricoltura in forte espansione, e hanno forti legami con le case e le comunità che hanno costruito da zero.

Trovare una via da seguire che soddisfi gli interessi sia dei coloni che delle persone sfollate dalle aree adiacenti, e che implichi anche il ritorno degli azeri nelle terre dell’Azerbaigian, non sarà una sfida da poco.

Tra i propositi del 2020 c’è anche quello di riprendere i colloqui di pace in modo più concreto. L’anno sarà importante, considerando anche le elezioni in agenda nel Nagorno Karabakh che potrebbero andare a cambiare gli equilibri nei rapporti di potere e di dipendenza con l’Armenia.

In ballo c’è la stabilità di un’area, quella del Caucaso, spesso in bilico per strascichi di passate ingiustizie ancora irrisolte. E, soprattutto, c’è il desiderio di pace per le popolazioni coinvolte nell’ennesima guerra etnica.

Oggi ricorre il trentesimo anniversario dei pogrom armeni a Baku, uno degli episodi più tragici del conflitto tra Azerbaigian e Karabakh. Il 13 gennaio 1990, l’oppressione mirata degli armeni di Baku si trasformò in un massacro diffuso e organizzato. Il ministero degli Affari esteri della repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh) lo ha osservato in una dichiarazione, che recita anche come segue:

«Cantando gli slogan “Gloria agli eroi di Sumgait!”, “Lunga vita a Baku senza armeni!”, una folla di migliaia di persone, divisa in gruppi guidati da attivisti del Fronte Popolare dell’Azerbaigian (PFA), attuò una “pulizia” metodica degli armeni casa per casa. Le prove abbondano di atrocità e omicidi commessi con estrema crudeltà.

Coloro che riuscirono a sfuggire alla morte furono sottoposti a deportazione forzata. Migliaia di armeni furono portati nel porto della città di Krasnovodsk, in Turkmenistan, con un traghetto attraverso il Mar Caspio, e furono successivamente inviati in Armenia e Russia con aerei.

I massacri continuarono per un’intera settimana nelle condizioni di completa inattività delle autorità azere, delle truppe interne e del grande presidio dell’esercito sovietico di Baku.

Il 18 gennaio, in occasione dei massacri di armeni a Baku, nonché degli attacchi armati ai villaggi armeni della regione di Shahumyan e Getashen, il Parlamento europeo adottò una risoluzione intitolata “Sulla situazione in Armenia“, che chiedeva le autorità dell’URSS di garantire una reale protezione della popolazione armena che vive in Azerbaigian inviando forze per intervenire sulla situazione.

Unità dell’esercito sovietico furono schierate nella capitale della Repubblica Socialista Sovietica azera solo nella notte del 20 gennaio 1990 che fermò i pogrom, superando la feroce resistenza delle unità armate del Fronte Popolare dell’Azerbiagian.

I pogrom di Baku sono diventati uno dei più sanguinosi crimini di massa contro la popolazione armena in una serie di pogrom, deportazioni, pulizia etnica e altri crimini contro l’umanità compiuti in Azerbaigian dal febbraio 1988. Secondo varie fonti, da 150 a 300 persone sono morte in conseguenza di tale massacro.

Condanniamo la negazione permanente da parte delle autorità azere degli atti di genocidio e l’esaltazione degli autori di quei crimini, negazione che è diventata parte integrante della politica di Baku di promozione della xenofobia e dell’odio nei confronti degli armeni.

Oggi, l’inculcazione dell’armenofobia e la promozione di crimini di odio contro gli armeni sono state elevate al rango di politica statale in Azerbaigian e sono penetrate in tutte le sfere della vita pubblica in questo paese, causando così gravi cambiamenti nella coscienza della società azera.

Il problema della xenofobia nei confronti degli armeni in Azerbaigian ha raggiunto dimensioni tali che è diventata una delle principali fonti di minacce alla stabilità e alla sicurezza regionali.

Per superare questi processi negativi e prevenire un aumento della xenofobia in Azerbaigian, sarà necessaria l’attuazione di una serie di misure, con il sostegno della comunità internazionale, che consentano alla società azera di sbarazzarsi di odiose norme e delle linee guida imposte dalle autorità.

Un passo importante nel processo di eradicazione dei fenomeni negativi causati dalla propaganda pluriennale dell’odio nei confronti degli armeni potrebbe essere il riconoscimento da parte delle autorità azere di responsabilità per i crimini di massa commessi contro la popolazione armena, compresi i pogrom di Baku. Ciò non solo migliorerà la situazione nello stesso Azerbaigian, ma creerà anche i presupposti per stabilire una pace duratura nella regione».

Il caffè geopolitico del 31.12.2019 di Chiara Soligo

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In 3 sorsi – Ispirato dalla rivoluzione armena, il Nagorno-Karabakh inaugura una nuova stagione di dialogo e di apertura politica.

1. 2017: L’ANNO DEI CAMBIAMENTI POLITICI

Soffia il vento del cambiamento in Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra Yerevan e Baku. In vista delle prossime elezioni del 2020, la piccola Repubblica si sta aprendo alla competizione politica e al pluralismo delle idee. Le modifiche alla Costituzione del Karabakh, approvate con il referendum del 2017, rappresentano la premessa per il rinnovato clima di dialogo. Con la votazione, il sistema di Governo della Repubblica dell’Artsakh è stato trasformato da semi-presidenziale a presidenziale. La transizione alla nuova Costituzione avverrà nel 2020, quando scadrà il mandato dell’attuale Parlamento. Bako Sahakyan, che nel 2017 avrebbe dovuto terminare il suo regolare mandato come Primo Ministro, è stato nominato dal Parlamento Presidente ad interim fino al 2020, per accompagnare la Repubblica nella transizione dalla vecchia alla nuova Costituzione. Sahakyan, pur avendo dichiarato di non voler competere nelle prossime elezioni del 2020, sta ora godendo di grandi poteri senza essere stato regolarmente votato dagli elettori. L’attuale Presidente ha avuto un ruolo rilevante nel permettere al Governo di Yerevan di controllare da vicino il Karabakh, condannato a una realtà politica stagnante e priva di cambiamento.

2. LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO

La Rivoluzione di Velluto in Armenia (2018) ha rimescolato le carte in tavola anche a Stepanakert. Con la destituzione del Presidente armeno Sargsyan, perfino l’élite politica del Karabakh si è trovata disorientata e priva del suo più prezioso sostenitore. Alle elezioni del 2020 l’influenza esercitata da Yerevan sarà quindi molto inferiore rispetto a quanto accaduto negli anni passati. Sono in competizione formazioni politiche con diverse agende, alcune legate all’establishment e altre portatrici di rinnovamento. Il Movimento 88, guidato dal veterano di guerra Vitali Balasanyan, si presenta come l’unico partito in grado di “difendere la madre patria”. Libera Patria, sotto l’egida di Harutyunyan, sostiene la tradizionale élite di Stepanakert. Rimane incerto il ruolo di formazioni politiche minori, quali il Partito Democratico dell’Artsakh, il Partito Comunista dell’Artsakh e la Federazione Rivoluzionaria Armena, che risentono della scarsità di risorse amministrative. Inoltre, la candidatura di Samvel Babayan, che si era presentato come figura di spicco all’interno della nuova opposizione, è stata considerata costituzionalmente inaccettabile a causa della sua assenza dal Karabakh per più di dieci anni.

3. QUALI SARANNO GLI SCENARI FUTURI?

Il neo-premier armeno Nikol Pashinyan, in occasione del primo incontro ufficiale con il Presidente azero Ilham Aliyev a Vienna (marzo 2019), si era dichiarato disposto ad intraprendere un dialogo costruttivo per la risoluzione del conflitto in Karabakh. Le speranze suscitate in quell’occasione sono però state spente dai toni assunti negli ultimi mesi dal dialogo tra Baku e Yerevan. I due leader, infatti, negli ultimi giorni di novembre hanno intrapreso un botta e risposta a distanza, cercando di scaricare l’uno sull’altro le responsabilità dei principali massacri della storia dei due Paesi, quello di Khojali e quello di Sumgait. Il fatto che, ad oggi, non siano ancora arrivati a una corretta ripartizione delle responsabilità, dimostra che, nonostante le parole di conciliazione pronunciate ad inizio 2019, la riappacificazione è ancora molto lontana e ciascuno dei due Paesi guarda principalmente ai propri interessi, ma non alle proprie colpe, passate e presenti. Rimangono dunque aperti gli scenari per l’anno 2020 a Stepanakert: se da un lato l’Armenia reclama a gran voce il territorio, dall’altro il suo minore controllo sul processo elettorale del Karabakh potrebbe portare alla vittoria di un leader non disposto a seguire incondizionatamente i dettami di Yerevan. Un allentamento della presa da parte armena potrebbe avere ripercussioni sull’influenza esercitata su Stepanakert da Baku, che aspirerebbe a ottenere maggiore libertà di azione. La posta in gioco è quindi molto alta per tutti i protagonisti di questa storica contesa, e gli esiti delle elezioni potranno condizionare in modo duraturo il destino del Karabakh.

Ilfattoquotidiano.it del 31.12.2019 di Pierfrancesco Curzi

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I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabilivecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a KazakistanTurkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.

Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.

Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.