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L’intervento del ministro degli Esteri dell’Armenia, Zohrab Mnatsakanyan , al Consiglio ministeriale dell’Osce di Bratislava. Parole chiare per risolvere il conflitto.

Signor Presidente,

Cari colleghi, Signore e signori, Signor Presidente, grazie per l’ospitalità e grazie per la leadership di questa Organizzazione durante tutto l’anno!

Ieri abbiamo tenuto un altro giro di consultazioni con la mia controparte azera e i copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE, il quinto di fila solo per quest’anno. A tale proposito, voglio illustrare la posizione dell’Armenia sugli aspetti chiave dell’insediamento pacifico del conflitto del Nagorno Karabakh.

In primo luogo, non vi è alternativa alla soluzione pacifica del conflitto all’interno della copresidenza del Gruppo Minsk dell’OSCE, un formato che è obbligatorio e sostenuto a livello internazionale.

In secondo luogo, il diritto inalienabile del popolo del Nagorno Karabakh all’autodeterminazione rappresenta un principio e una base fondamentali per la risoluzione pacifica. Il riconoscimento di questo principio non deve essere limitato nell’ambito della determinazione dello status finale del Nagorno Karabakh, deve essere chiaramente e inequivocabilmente accettato. Il termine “senza limitazione” implica chiaramente anche il diritto del popolo del Nagorno Karabakh di mantenere e determinare uno status al di fuori della giurisdizione, sovranità o integrità territoriale dell’Azerbaigian. Le persistenti politiche e azioni ostili dell’Azerbaigian volte a minare e minacciare la sicurezza fisica esistenziale del popolo del Nagorno Karabakh, compresa l’ultima tentata aggressione dell’Azerbaigian contro il Nagorno Karabakh nell’aprile 2016, sottolineano l’illegittimità e l’impossibilità di rivendicare la giurisdizione dell’Azerbaigian sul popolo del Nagorno Karabakh.

L’Azerbaigian deve assumere un impegno diretto per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno Karabakh attraverso la libera espressione legalmente vincolante della volontà delle persone che vivono nel Nagorno Karabakh, il cui esito non dovrebbe avere limiti.

In terzo luogo, la sicurezza della popolazione del Nagorno Karabakh non sarà compromessa. In nessun caso la popolazione del Nagorno Karabakh dovrebbe essere lasciata senza linee di difesa sicure. Non vi sarà alcuna condizione di assumere un rischio per la sicurezza fisica esistenziale della popolazione del Nagorno Karabakh, come è avvenuto nel 1991-1994 e nel 2016. Per sottolineare questo punto, mi riferisco alla situazione nei territori del Nagorno Karabakh, attualmente occupati dall’Azerbaigian, in cui gli armeni erano stati ripuliti etnicamente e i territori sono stati completamente reinsediati dall’Azerbaigian. Questa realtà è stata recentemente presentata dalla dirigenza dell’Azerbaigian come un buon esempio di soluzione del conflitto nel Nagorno Karabakh.

In quarto luogo, la soluzione pacifica dovrebbe essere inclusiva coinvolgendo direttamente tutte le parti in conflitto. Pertanto, il Nagorno Karabakh attraverso i suoi rappresentanti eletti dovrebbe essere una parte diretta nel processo negoziale. A questo proposito, sottolineiamo la necessità del pieno impegno dei rappresentanti eletti di Artsakh nel processo di pace, in particolare sulle questioni fondamentali della sostanza. Il governo dell’Armenia non intraprenderà mai alcuna attività che possa violare il diritto del popolo del Nagorno Karabakh di determinare liberamente il proprio status politico o privarlo della proprietà di questo processo.

In quinto luogo, una soluzione pacifica non può aver luogo in un ambiente di tensioni e rischi di escalation. Pertanto, gli accordi di cessate il fuoco del 1994 e 1995 conclusi tra Azerbaigian, Nagorno Karabakh e Armenia dovrebbero essere rigorosamente rispettati e rafforzati. Dovrebbero essere attuati meccanismi di riduzione del rischio, compresi i meccanismi dell’OSCE che indagano sulle violazioni del cessate il fuoco e monitorano il regime del cessate il fuoco, anche attraverso l’espansione dell’ufficio del PRCiO [Rappresentante personale del Presidente dell’Osce in carica, NdT].

In sesto luogo, il principio di base del non uso della forza o della minaccia dell’uso della forza dovrebbe essere rispettato incondizionatamente. Le politiche di odio, intolleranza, xenofobia, armenofobia, istigate e dirette dalla leadership dell’Azerbaigian dovrebbero essere denunciate. Gli sforzi dovrebbero essere rafforzati per preparare le popolazioni alla pace e per creare un ambiente favorevole alla pace.

In settimo luogo, le posizioni massimaliste dell’Azerbaigian, che ignorano la volontà e la sensibilità del popolo del Nagorno Karabakh, sono ostacoli fondamentali a un progresso significativo nel processo di pace. L’incapacità delle autorità dell’Azerbaigian di ricambiare la richiesta di un compromesso da parte dell’Armenia è un caso specifico. Per ricordare, il Primo Ministro dell’Armenia ha dimostrato una forte volontà politica nell’annunciare che qualsiasi accordo dovrebbe essere accettabile per il popolo di Armenia, Artsakh e Azerbaigian, il che significa che l’accordo può essere basato solo su un compromesso.

Signor Presidente, l’Armenia rimane impegnata in buona fede nel processo negoziale e continuerà a lavorare costantemente per una soluzione pacifica. Allo stesso tempo, è inaccettabile che alla luce degli attuali sviluppi politici interni in Azerbaigian, quest’ultimo stabilisca le condizioni preliminari per il processo di pace, come manifestato in un documento di sintesi diffuso alla vigilia di questo Consiglio dei ministri. L’Armenia respinge tale approccio non costruttivo.

Infine, nell’ultimo mese abbiamo dimostrato un esempio modesto e tuttavia importante di rafforzamento della fiducia tra tutte le parti in conflitto. Lo scambio di giornalisti provenienti da Armenia, Nagorno Karabakh e Azerbaigian è un promettente esempio di costruzione di fiducia e dialogo inclusivo tra le parti a livello pubblico. Siamo pronti a sviluppare ulteriormente questo esempio. Inoltre, il livello relativamente basso di violenza lungo la linea di contatto e il confine internazionale, nonché l’uso della linea di comunicazione diretta dovrebbero essere sostenuti e potenziati. Tuttavia, restiamo seriamente preoccupati del fatto che, nonostante queste misure, ci siano state perdite e lesioni che avrebbero potuto essere evitate.

Mantenere gli impegni è fondamentale per creare fiducia nelle prospettive di soluzione definitiva del conflitto.

In conclusione, vorrei dare il benvenuto all’Albania come presidente entrante e augurare loro ogni successo. Grazie.

(traduzione e grassetto redazionali)

Tempi.it (15 ottobre 2019) di Rodolfo Casadei

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«Non siamo noi a volere il conflitto». Intervista al ministro dell’Economia dell’Artsakh, Levon Grygorian, in visita in Italia

L’Artsakh è una piccola repubblica assediata fra i monti del Caucaso. La abitano, la governano e la difendono i locali abitanti armeni che nel settembre 1991 dichiararono a loro volta la propria indipendenza per non essere assorbiti nell’Azerbaigian che un paio di settimane prima aveva deciso di costituire uno stato indipendente dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il territorio coincide con lo storico Nagorno Karabakh, che nel 1921 Stalin assegnò all’Azerbaigian nonostante fosse abitato in grandissima maggioranza da armeni che avrebbero preferito far parte della vicina repubblica sovietica di Armenia. Fra il 1991 e il 1994 nell’Artsakh e negli adiacenti territori azeri si è combattuta una guerra sanguinosa che è stata sospesa da un armistizio il 5 maggio 1994. Grazie anche al sostegno delle forze armate della repubblica di Armenia (a sua volta divenuta indipendente il 21 settembre 1991), gli armeni del Nagorno Karabakh hanno cacciato le forze armate dell’Azerbaigian dal loro territorio e occupato alcune aree azere adiacenti per creare una continuità territoriale con la vicina Armenia e per proteggere da eventuali attacchi di artiglieria la capitale Stepanakert. Lungo i 150 chilometri di trincee che separano le postazioni armene da quelle azere le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da venticinque anni a questa parte: uno stillicidio di vittime caratterizza le cronache dal fronte. Nell’aprile di tre anni fa l’Azerbaigian per la prima volta dalla firma dell’armistizio tentò un’operazione militare su larga scala che causò decine di morti e si concluse in uno stallo.

La repubblica di Artsakh non è riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, nemmeno dall’amica e confinante Armenia, ma i suoi 150 mila abitanti hanno bisogno di tutto per contrastare il parziale isolamento nel quale sono costretti a vivere da un quarto di secolo. Così nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e dell’Infrastruttura industriale della repubblica, Levon Grygorian, si è recato in visita ufficiosa in Italia per incontrare realtà della società civile italiana interessate a una cooperazione su più piani per lo sviluppo economico e umano del suo paese. Ha avuto colloqui con esponenti di associazioni imprenditoriali del Veneto e della Lombardia e in particolare ha perfezionato il gemellaggio fra l’Istituto Alberghiero che è parte dell’Istituto scolastico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e una struttura che sta nascendo a Stepanakert. Il ministro è stato ospite del ristorante didattico Saporinmente, annesso all’Istituto Alberghiero, e lì ci ha concesso un’intervista prima di continuare la sua visita.

Ministro, gli occhi di tutto il mondo sono rivolti con preoccupazione a ciò che sta succedendo nel nord della Siria: la Turchia ha promosso un’operazione militare volta all’occupazione di una fascia di territorio siriano. Cosa ne pensa?  

La guerra non è mai la soluzione, porta solo conseguenze negative. Noi siamo un popolo che conosce per esperienza diretta, e non per le immagini televisive, di quanta sofferenza sia causa la guerra, sappiamo che non risolve i problemi. Il governo dell’Artsakh non approva in alcun modo questo intervento militare.

Venticinque anni dopo la firma dell’armistizio che ha congelato la guerra del Nagorno Karabakh ancora non si intravede una soluzione definitiva al conflitto, e nel frattempo la Repubblica di Artsakh che si è costituita nel 1991 non è riconosciuta dai paesi membri dell’Onu. Come fate fronte a questa situazione di isolamento istituzionale?

La guerra non l’abbiamo voluta noi, non siamo stati noi a iniziarla. Al momento del collasso dell’Unione Sovietica abbiamo chiesto quello che chiedevano tutti i popoli dell’ex Urss: autodeterminarci, e nel nostro caso noi avremmo voluto unirci alla Repubblica di Armenia. Il governo azero ha rifiutato di riconoscere la nostra autodeterminazione e ha risposto con la guerra. Siamo sopravvissuti agli attacchi, abbiamo difeso e consolidato il nostro territorio, abbiamo firmato il cessate il fuoco del 1994. Da allora abbiamo operato su due fronti. Abbiamo ricostruito le città bombardate e distrutte, abbiamo organizzato le istituzioni della repubblica e abbiamo chiesto di essere riconosciuti a livello internazionale. Per il riconoscimento sappiamo che ci vorrà ancora tempo; nell’attesa continuiamo a costruire il nostro paese, e guardiamo con ottimismo al futuro: ne è una prova questa mia missione in Italia. Gli studenti che parteciperanno agli scambi con l’Italia appartengono alla generazione che non ha vissuto i giorni della guerra, e questo è un segno della nostra vitalità. Come sapete, i negoziati per la pace sono condotti dal cosiddetto gruppo di Minsk, il cui ufficio di presidenza è composto da rappresentanti di Francia, Russia e Stati Uniti. Noi non siamo presenti in questo organismo dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e i nostri interessi sono rappresentati indirettamente dall’Armenia, che invece ne fa parte.

Quali sviluppi ci sono stati dopo la crisi dell’aprile 2016, quando sembrava che il conflitto con l’Azerbaigian dovesse ricominciare su larga scala?

Abbiamo imparato molto da quella brutta esperienza. Oggia la nostra difesa è migliorata e ancora stiamo lavorando per avere forze armate ancora più efficienti. Non abbiamo altro che il nostro esercito a difenderci. Oggi come negli anni Novanta, non siamo noi che vogliamo la guerra: il nostro conflitto con l’Azerbaigian va risolto con la diplomazia. Ma come negli anni Novanta e come nel 2016, siamo pronti a difenderci. L’offensiva di tre anni fa mirava a sfondare il centro del nostro schieramento attirando le nostre forze agli estremi della linea del fronte, ma i nostri ufficiali hanno saputo interpretare la tattica nemica e non sono caduti nella trappola.

Quali sono i paesi maggiormente amici della Repubblica dell’Artsakh?

 Non facciamo preferenze, siamo aperti a tutte le relazioni, specialmente coi popoli europei. Non intendo fare nomi.

Che bilancio fa della sua visita in Italia che si sta concludendo?

Il bilancio è positivo. Siamo venuti in Italia per approfondire la conoscenza del sistema delle PMI e per prendere contatti per poterlo replicare nel Nagorno Karabakh: il Nord Italia ha una grande tradizione di piccola e media impresa, ed è un modello molto adatto alla nostra economia. Ci interessa anche collaborare in progetti per migliorare l’educazione e l’istruzione professionale nel nostro paese. Per entrambi gli obiettivi, abbiamo trovato interlocutori in Veneto e in Lombardia, specialmente in Brianza. Torniamo in patria dopo aver fatto una esperienza intensa e grande, che ci permetterà di approntare una piattaforma di collaborazione con l’Italia.

L’anno prossimo si terranno elezioni presidenziali nell’Artsakh. Che significato ha questo appuntamento politico?

Per ogni paese le elezioni sono un appuntamento di grande importanza. Non è certo la prima volta che i cittadini della repubblica sono chiamati alle urne, e in tutte le occasioni passate gli osservatori internazionali hanno potuto verificare che si è trattato di elezioni trasparenti, oneste e libere. Nel 2020 alzeremo ancora di più il livello di trasparenza democratica di tutto il processo elettorale.

Dopo mesi di relativa calma si rialza la tensione lungo la linea di contatto tra Artsakh (Nagorno Karabakh) e Azerbaigian. E gli azeri lasciano un caduto nella terra di nessuno.

L’Esercito di Difesa dell’Artsakh ha infatti respinto un tentativo di penetrazione in territorio armeno di soldati azeri. Ne dà notizia il ministero della Difesa che indica in un punto non precisato del settore sud orientale il luogo di azione nemica.

Il fatto, peraltro sembrerebbe documentato da telecamere di sorveglianza, è accaduto domenica 22 intorno alle 16,15 ora locale. Le forze azere sono state respinte indietro alle loro postazioni ma hanno lasciato in zona neutrale un caduto.

Il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha respinto le accuse armene circa un tentativo di penetrazione ma ha ammesso la perdita di un soldato, Ramin Abdulrahmanov. Questi si troverebbe in effetti nella terra di nessuno tra le opposte postazioni difensive al punto che gli azeri avrebbero chiesto l’intervento della Croce Rossa Internazionale per rimuovere il corpo. Nei suoi comunicati ufficiali Baku non ha fornito alcuna spiegazione riguardo la presenza del soldato in quella porzione di territorio neutrale.

Si tratta del primo grave episodio di violazione del regime di cessate-il-fuoco dopo mesi di relativa calma. Per la cronaca, nella giornata di lunedì 23 a New York, a margine dei lavori della Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si incontrano i ministri degli Affari esteri di Armenia e Azerbaigian.



Il 5 maggio 1994, a Bishkek capitale del Kirghizistan, venne firmato l’omonimo accordo di cessate il fuoco a conclusione delle ostilità nel Nagorno Karabakh.

Dopo due anni di guerra, 30.000 morti, almeno 50.000 feriti e centinaia di sfollati, le parti in causa convennero di cessare lo scontro armato.

Non fu un trattato di pace ma solo un patto di cessazione degli scontri (con efficacia a partire dal 12 maggio).

Venticinque anni dopo la repubblica del Nagorno Karabakh, nel frattempo divenuta repubblica di Artsakh attende di poter porre la parola fine alla guerra definita silenziosa, congelata ma che negli ultimi cinque lustri ha mietuto centinaia di vittime e conosciuto momenti di recrudescenza come nell’aprile del 2016 allorché le forze armate azere attaccarono le postazioni di difesa armene tentando in penetrare nel territorio dello Stato.

L’Azerbaigian persevera con una retorica improntata alla militarizzazione dello scontro, continua ad armarsi sempre di più e – nonostante il paziente lavoro diplomatico del Gruppo di Minsk dell’Osce – non sembra aver abbandonato l’idea di una soluzione finale di stampo bellico.

La piccola repubblica armena dell’Artsakh costruisce giorno dopo giorno la propria indipendenza statuale e mai e poi mai potrà essere amministrata da un governo azero.

L’unica soluzione è un riconoscimento formale!

Ci pare altresì doveroso ricordare come l’accordo di Bishkek venne firmato tra gli altri anche da Karen Baburyan, all’epoca presidente del Soviet del Nagorno Karabakh e per tale carica considerato il terzo Presidente della neonata repubblica. Quando oggi gli azeri dichiarano di non voler modificare il format negoziale e di non volere al tavolo delle trattative rappresentanti del governo di Stepanakert, dimenticano che proprio quell’accordo fu firmato da Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh.

Nessun cambio di format negoziale dunque! Ma solo la necessità di far decidere del suo futuro il popolo che più di ogni altro è interessato al negoziato.

East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.

 

 

Il Primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il Presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, si sono incontrati a Vienna per iniziativa del gruppo di Minsk dell’Osce.

Dopo gli incontri “informali” di Dushambe, San Pietroburgo e Davos avvenuti nei mesi scontri si tratta del primo meeting ufficiale tra il leader armeno e quello azero.

L’evento, tenutosi all’hotel Bristol della capitale austriaca e iniziato alle ore 11 locali, si è articolato in due parti: un primo incontro allargato ai ministri degli Esteri dei due Paesi (Mnatsakanyan e Mammadyarov) e ai co-presidenti del Gruppo di Minsk. Dopo una breve interruzione Pashinyan e Aliyev hanno avuto un incontro privato a porte chiuse durato quasi due ore al termine del quale sono rientrati nella sala anche i rispettivi ministri degli Affari esteri.

Complessivamente il meeting è durato tre ore e un quarto. Al momento l’Osce non ha ancora diramato un comunicato ufficiale né trapelano indiscrezioni sul contenuto dei colloqui.

Uscendo dalla sala al termine del colloquio, in risposta alla domanda di un giornalista, il premier armeno ha definito l’incontro “normale”.

«Lungo, saturo, efficace» questo è il modo in cui il co-presidente del gruppo di Minsk Stefan Visconti (Francia) ha descritto la riunione di Pashinyan-Aliyev durante un briefing con giornalisti che fanno parte della delegazione del primo ministro Nikol Pashinyan a Vienna.

COMUNICATO STAMPA GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE

Vienna, 29 marzo 2019 – Il Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e il Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan si sono incontrati oggi a Vienna per la prima volta sotto l’egida dei Co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE (Igor Popov della Federazione Russa, Stéphane Visconti di Francia, e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America). All’incontro hanno partecipato anche i ministri degli Esteri Zohrab Mnatsakanyan e Elmar Mammadyarov. Anche Andrzej Kasprzyk, il rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE, ha partecipato all’incontro. L’incontro si è svolto in un’atmosfera positiva e costruttiva e ha offerto ai due leader l’opportunità di chiarire le rispettive posizioni. Si sono scambiati opinioni su diverse questioni chiave del processo di risoluzione e idee di sostanza. I due leader hanno sottolineato l’importanza di costruire un ambiente favorevole alla pace e di intraprendere ulteriori passi concreti e concreti nel processo negoziale per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Ricordando la loro conversazione a Dushanbe, i leader hanno raccomandato di rafforzare il cessate il fuoco e migliorare il meccanismo di comunicazione diretta. Hanno anche concordato di sviluppare una serie di misure nel campo umanitario. Il primo ministro e il presidente hanno incaricato i loro ministri di incontrarsi nuovamente con i co-presidenti nel prossimo futuro. Hanno anche accettato di continuare il loro dialogo diretto.

Il ministro degli Affari esteri della repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh), Masis Mayilian, nel corso di una intervista all’agenzia di stampa russa ‘Regnum’ precisa la posizione riguardo a una ipotizzata cessione di territori all’Azerbaigian. Si tratta di interessanti puntualizzazioni che ben chiariscono i termini della questione negoziale.

Signor Ministro, dopo il cambio di potere a Yerevan, le consultazioni tra Armenia e Azerbaigian per una soluzione sul Karabakh si sono acuite intensamente (noi diciamo “consultazioni”, perché i veri negoziati, quando anche il Nagorno Karabakh ha partecipato ad essi, sono cessati nel 1997). Come spiegherebbe l’intensificazione di queste consultazioni?

Dopo che il nuovo governo è salito al potere nella Repubblica di Armenia, mantenere la dinamica degli incontri e delle consultazioni è stato di una certa importanza sia per la parte armena che per i co-presidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE, anche dal punto di vista della dimostrazione del rispetto degli accordi concordati e del formato di mediazione. L’indubbia intensificazione degli incontri tra Yerevan e Baku è condizionata dal desiderio delle parti di familiarizzare con i rispettivi approcci riguardanti la soluzione pacifica del conflitto azerbaigiano-karabaco.

Le riunioni dei ministri degli Esteri si sono svolte sotto la mediazione dei co-presidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE. I contatti al più alto livello si sono svolti senza la partecipazione di mediatori ai margini di vari forum internazionali e sono stati informali. Come è noto, si sta pianificando la prima riunione del Primo Ministro dell’Armenia e del Presidente dell’Azerbaigian sotto la mediazione dei Co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE.

Credo che un’artificiosa intensificazione delle consultazioni a priori non possa essere fruttuosa. Apparentemente, anche le parti lo capiscono. Ad esempio, a febbraio, i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian hanno partecipato alla Conferenza di sicurezza di Monaco, ma non hanno pianificato di tenere una nuova riunione in quel forum.

Il Primo Ministro dell’Armenia ha insistito sulla necessità di coinvolgere la Repubblica del Nagorno Karabakh nei negoziati con l’Azerbaigian. Come vede esattamente la procedura e il tema della partecipazione della NKR ai negoziati?

Prima di tutto, va notato che Yerevan e Stepanakert hanno lo stesso approccio al ripristino del formato trilaterale dei negoziati. Allo stesso tempo, parlando del ritorno della Repubblica di Artsakh al tavolo dei negoziati, partiamo dalla necessità di realizzare reali progressi nel processo di risoluzione del conflitto Azerbaigian-Karabakh. Ci sono tutti i prerequisiti necessari per il ripristino dei negoziati trilaterali. Innanzitutto, dopo una lunga discussione sul formato dei negoziati, ancora nel 1993, la CSCE / OSCE arrivò al convincimento della necessità della partecipazione del Nagorno Karabakh come terza parte in tutte le fasi del processo di pace. Successivamente, questa tesi è stata riflessa nel Sommario di Praga dal Presidente in esercizio dell’OSCE del 31 marzo 1995. Il formato trilaterale stesso è stato approvato in precedenza dalla decisione del Vertice di Budapest dell’OSCE del 1994, basato sul consenso. In secondo luogo, come il tempo mostrava, il formato trilaterale era stato il più efficiente e produttivo. Fu in questo formato che l’unico risultato tangibile fu raggiunto nel processo di definizione – la conclusione sotto la mediazione russa dell’accordo trilaterale del 12 maggio 1994 – del cessate il fuoco e la cessazione di tutte le ostilità.

La formula per il successo del formato di negoziazione trilaterale è piuttosto semplice: ciascuna delle parti ha direttamente rappresentato i propri interessi e discusso le questioni di sua competenza.

La procedura per la partecipazione della Repubblica di Artsakh ai negoziati può essere basata su questa formula. Come il Primo Ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan ha ripetutamente affermato, Yerevan non intende impostare la partecipazione di Stepanakert al processo negoziale come una condizione preliminare, ma allo stesso tempo condurrà negoziati solo per proprio conto. Ciò significa che le questioni nell’ambito della competenza esclusiva e dei poteri delle autorità della Repubblica di Artsakh non possono essere discusse nel formato bilaterale Yerevan-Baku. Tale approccio è oggettivo e, crediamo, può fungere da meccanismo per il ritorno dell’Artsakh al tavolo negoziale.

La stragrande maggioranza dei progetti per la risoluzione del conflitto del Karabakh propone di ridurre il territorio della repubblica del Nagorno Karabakh al territorio dell’Oblast autonoma del Nagorno Karabakh. Cosa ne pensa di queste idee?

Poiché il conflitto Azerbaigian-Karabakh non è una disputa territoriale, la ricerca di possibili modi per risolvere il problema sulla base di concessioni territoriali è senza speranza e non riflette l’essenza del conflitto.

Il fatto che nel 1988, quando iniziò una nuova fase del conflitto, i territori attorno all’ex oblast (NKAO) e persino una delle regioni amministrative della regione autonoma fossero sotto il controllo di Baku, indica che questo conflitto non è una disputa territoriale. Cioè, il conflitto si è verificato nonostante il fatto che questi territori fossero controllati dalla parte azera. Pertanto, è illogico credere che le concessioni territoriali di Artsakh possano portare alla risoluzione del conflitto. Va inoltre considerato che tali proposte riguardano direttamente la questione della sicurezza, che è una delle “linee rosse” per l’Artsakh nel processo di risoluzione del conflitto con l’Azerbaigian.

Cedere i territori è una via diretta alla distruzione del sistema di sicurezza non solo dell’Artsakh, ma anche della Repubblica di Armenia, e minaccerà l’esistenza stessa della popolazione indigena nella sua patria storica. In altre parole, questo problema ha un significato esistenziale per noi. Le dichiarazioni del presidente dell’Azerbaigian dimostrano che l’obiettivo strategico ufficiale di Baku è quello di catturare non solo l’Artsakh, ma anche la regione di Syunik in Armenia e persino la capitale dell’Armenia, Yerevan. Dovremmo prendere sul serio le dichiarazioni del presidente e del comandante supremo delle forze armate dell’Azerbaigian e non facilitare il suo percorso verso il loro obiettivo strategico. Al contrario, è necessario continuare a prendere misure militari e politico-diplomatiche per scoraggiare le intenzioni aggressive ed espansionistiche della leadership del paese vicino.

Da rammentare che la leadership della Repubblica di Artsakh ha ripetutamente affermato l’impossibilità e l’inammissibilità di tornare al passato in termini di entrambi i temi: lo status e i territori.

Inoltre, il 15 luglio 2009, dopo che gli approcci dei mediatori all’accordo sul conflitto tra l’Azerbaigian e il Karabakh sono stati resi pubblici, il ministero degli Affari esteri della Repubblica di Artsakh ha rilasciato una dichiarazione sulla necessità di riavviare il processo negoziale falsato al fine di far tornare l’autorità di Stepanakert al tavolo dei negoziati come parte a pieno titolo e per trasformare i principi di base della risoluzione. Questa posizione della Repubblica di Artsakh rimane invariata.

Va inoltre notato che nella suddetta dichiarazione, il ministero degli Esteri dell’Artsakh ha sottolineato che i tentativi di riportare l’Artsakh al passato non sono solo controproducenti, ma sono anche carichi di una nuova escalation del conflitto.

(traduzione redazionale a cura di Karabakh.it)

Il 9 marzo, i co-presidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE hanno rilasciato una dichiarazione che esorta le parti ad astenersi dall’esigere modifiche unilaterali al formato dei negoziati senza il consenso dell’altra parte.

In precedenza, il 6 marzo, il ministero degli Esteri dell’Azerbaigian aveva formulato un commento sull’impossibilità di modificare il formato del negoziato approvato dalla decisione di Helsinki del Consiglio ministeriale dell’OSCE del 1992, senza raggiungere il consenso degli Stati partecipanti all’OSCE. Inoltre, secondo il governo di Baku, “la decisione prevede che l’Armenia e l’Azerbaigian agiscano come parti del conflitto, mentre le comunità armene e azerbaigiane del Nagorno Karabakh lo fanno come parti interessate“.

Non è la prima volta che il ministero degli Affari Esteri dell’Azerbaigian dimostra una mancanza di memoria istituzionale e completa ignoranza del processo di risoluzione pacifica del conflitto Azerbaigian-Karabakh, così come i documenti adottati all’interno di questo quadro.

Innanzitutto, la decisione del 24 marzo 1992 della Riunione aggiuntiva di Helsinki della CSCE non menziona alcuna comunità. Il documento elenca le parti interessate “elette e altri rappresentanti del Nagorno Karabakh“.

In secondo luogo, la questione del formato e dello status delle parti in negoziazione è stata oggetto di lunghe discussioni che hanno attraversato un certo percorso di sviluppo. Già nel 1993, nei documenti discussi nell’ambito del processo di Minsk, il Nagorno Karabakh era indicato come una parte piena del conflitto. La chiarezza finale su questo tema è stata introdotta al vertice CSCE / OSCE a Budapest nel 1994. Secondo il documento conclusivo del Vertice, le parti in conflitto sono quelle che hanno confermato il cessate il fuoco concordato il 12 maggio 1994. L’accordo sul pieno il cessate il fuoco e la cessazione delle ostilità sono state concluse tra il Nagorno Karabakh, l’Azerbaigian e l’Armenia. Il 26-27 luglio 1994, il Nagorno Karabakh, l’Azerbaigian e l’Armenia hanno firmato un accordo aggiuntivo, in cui hanno confermato “i loro impegni per il cessate il fuoco fino alla conclusione di un ampio accordo politico“.

Dopo il Vertice di Budapest, in risposta ai tentativi della parte azerbaigiana di speculare ancora sul tema delle parti in conflitto, il Presidente in esercizio dell’OSCE, il ministro degli Esteri ungherese László Kovács ha rilasciato una dichiarazione speciale alla riunione del Senior Council dell’OSCE a Praga il 31 marzo 1995, in cui ha “confermato le precedenti decisioni dell’OSCE sullo status delle parti, ossia la partecipazione delle due parti dello Stato al conflitto e dell’altra parte in conflitto (Nagorno Karabakh) nell’intero processo di negoziazione, compreso nella conferenza di Minsk “.

Il riepilogo del Presidente in esercizio dell’OSCE di Praga è molto chiaro e non lascia spazio a interpretazioni arbitrarie e tendenziose da parte dell’Azerbaigian sulle decisioni dell’OSCE in merito al formato del negoziato.

 Le autorità sia della Repubblica di Artsakh che della Repubblica di Armenia non sollevano la questione della creazione di un nuovo formato di negoziazioni non concordato.

Si tratta infatti di ripristinare il vero e proprio formato negoziale come stabilito nella decisione del Vertice di Budapest dell’OSCE del 1994. Tale decisione è stata approvata per consenso dai capi di Stato e di governo degli Stati partecipanti all’OSCE, tra cui l’Azerbaigian e i Paesi co-presidenti del gruppo di Minsk .

Abbiamo ripetutamente sottolineato che la questione del ripristino del formato trilaterale dei negoziati è una sorta di cartina di tornasole, a dimostrazione del grado di preparazione per i reali progressi nella soluzione pacifica del conflitto azerbaigiano-karabakho. L’opposizione al ripristino del formato negoziale più efficace può essere interpretata come un impegno a favore del mantenimento dello status quo.

È deplorevole che i copresidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE non mostrino il dovuto principio di ripristino del formato del negoziato trilaterale coerente con la decisione dell’organo più alto dell’OSCE.

Dello stesso avviso anche il ministro degli Esteri dell’Armenia il quale ha confermato che « non faremo nulla che possa portare a uno stallo [delle trattative, NdR] perché rimaniamo impegnati nella soluzione pacifica del processo. Questa è una questione molto importante e passeremo decisamente in questa direzione. Questa è una questione di principio per accettare che il Nagorno Karabakh abbia una voce e un impegno decisivi. Questo non è qualcosa di nuovo, ma in linea con questo, per lavorare efficacemente alla promozione del processo negoziale, dobbiamo accettare praticamente che sia necessaria l’espressione di questa voce e impegno decisivo. Oggi stiamo negoziando sia con il Nagorno Karabakh che con l’Azerbaigian all’interno dei gruppi del Gruppo di Minsk dell’OSCE. Questa non è una condizione preliminare e vogliamo continuare a discutere e trovare le soluzioni ai problemi».

IL COMUNICATO STAMPA DEL GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE

MOSCA / PARIGI / WASHINGTON DC, 9 marzo 2019 – Nella loro dichiarazione del 1 marzo, i Co-presidenti del Gruppo OSCE di Minsk (Igor Popov della Federazione russa, Stephane Visconti di Francia e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America) hanno accolto favorevolmente il l’impegno del Presidente azero Ilham Aliyev e del Primo ministro armeno Nikol Pashinyan a riunirsi presto sotto l’egida dei Co-presidenti. I co-presidenti, lavorando a stretto contatto con i due ministri degli esteri, stanno organizzando i preparativi per questo importante incontro dei leader, che rappresenterà il primo contatto diretto tra i due leader sotto gli auspici dei co-presidenti.

I co-presidenti sottolineano l’importanza di mantenere un ambiente favorevole a discussioni produttive e continuano a valutare positivamente la recente mancanza di vittime in prima linea. I co-presidenti accolgono inoltre alcuni primi passi nella regione per preparare le popolazioni alla pace e incoraggiare le parti a intensificare tali sforzi. Allo stesso tempo, i co-presidenti ribadiscono l’importanza fondamentale di ridurre le tensioni e ridurre al minimo la retorica infiammatoria. In questo contesto, i co-presidenti sollecitano le parti ad astenersi da dichiarazioni e azioni che suggeriscano cambiamenti significativi della situazione sul terreno, pregiudichino il risultato o stabiliscano le condizioni per futuri colloqui, richiedendo modifiche unilaterali al formato senza l’accordo dell’altra parte, o indicando la disponibilità a rinnovare le ostilità attive.

Con riferimento ad alcune recenti dichiarazioni pubbliche contraddittorie sulla sostanza del processo del gruppo di Minsk, i co-presidenti ribadiscono che una soluzione equa e duratura deve essere basata sui principi fondamentali dell’Atto finale di Helsinki, in particolare il non uso o la minaccia di forza, integrità territoriale e pari diritti e autodeterminazione dei popoli. Dovrebbe inoltre includere elementi aggiuntivi come proposto dai presidenti dei Paesi co-presidenti nel 2009-2012, tra cui: il ritorno dei territori circostanti il ​​Nagorno Karabakh al controllo azerbaigiano; uno status provvisorio per il Nagorno Karabakh che fornisce garanzie per la sicurezza e l’autogoverno; un corridoio che collega l’Armenia al Nagorno Karabakh; futura determinazione dello status giuridico finale del Nagorno Karabakh attraverso un’espressione di volontà legalmente vincolante; il diritto di tutti gli sfollati e rifugiati di tornare nei loro precedenti luoghi di residenza; e garanzie di sicurezza internazionale che includano un’operazione di mantenimento della pace.

I copresidenti sottolineano il loro punto di vista secondo cui questi principi e questi elementi devono essere il fondamento di qualsiasi soluzione equa e duratura al conflitto e dovrebbero essere concepiti come un insieme integrato. Qualsiasi tentativo di mettere alcuni principi o elementi su altri renderebbe impossibile raggiungere una soluzione equilibrata.

I copresidenti sono pronti a incontrare i leader e i ministri degli esteri dell’Armenia e dell’Azerbaigian in qualsiasi momento e invitano i leader a riprendere i negoziati in buona fede il prima possibile. Il dialogo continuo e diretto tra Baku e Yerevan, condotto sotto l’egida dei copresidenti, rimane un elemento essenziale per rafforzare la fiducia e promuovere il processo di pace. I copresidenti continueranno inoltre a discutere, se del caso, le questioni pertinenti con le parti interessate direttamente interessate dal conflitto, riconoscendo che le loro opinioni e preoccupazioni devono essere prese in considerazione per il successo di qualsiasi soluzione negoziata.

I copresidenti sottolineano che rimangono pienamente impegnati, conformemente al loro mandato, ad aiutare le parti a trovare una soluzione pacifica al conflitto. I copresidenti esprimono inoltre il loro pieno sostegno al lavoro di monitoraggio imparziale e critico intrapreso dal rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE e dal suo gruppo.

UN NOSTRO COMMENTO

Abbiamo più volte ribadito che un accordo di pace non potrà che essere una soluzione di compromesso. Se tale deve essere, è condizione sine qua non la sicurezza dell’Artsakh non venga in alcun modo messa in discussione al pari del suo pieno diritto all’autodeterminazione. Un Nagorno Karabakh (Artsakh) quasi interamente circondato dagli azeri non può soddisfare tale condizione.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso del 25 gennaio 2019, di Marilisa Lorusso

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I recenti incontri diplomatici tra Armenia e Azerbaijan aprono spiragli di fiducia nei progressi per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh

Non soffiano ancora venti di pace sul processo di risoluzione e pacificazione del conflitto in Nagorno Karabakh, ma sicuramente aria di novità. Il neo eletto governo di Nikol Pashinyan, fresco della conferma dalle urne e del consenso che lo sostiene sta tentando un avvicinamento cauto a Baku, che gli fa sponda.

Il lavorio diplomatico

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliev si sono incontrati il 22 gennaio scorso a Davos, nell’ambito del World Economic Forum, per parlare del conflitto in Karabakh, regione secessionista armena sottrattasi dal 1994 al controllo di Baku. Non è la prima volta che a latere di un evento diplomatico multilaterale i due si ritagliano un incontro rigorosamente bilaterale. Era già successo a Dushanbe, durante la riunione del CIS, e poi di nuovo a Pietroburgo, in un’analoga circostanza. E poi ci sono stati i numerosi incontri dei numero uno dei rispettivi ministeri degli Esteri.

Dall’assunzione dell’incarico il ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha incontrato l’omologo azerbaijano Elmar Mammadyarov quattro volte, di cui l’ultima volta a Parigi il 16 gennaio scorso. Un incontro durato ben quattro ore e definito molto proficuo dai copresidenti del Gruppo di Minsk per la regolamentazione del conflitto congelato dal 1994, cioè Francia, Russia e Stati Uniti. Si leggono nel comunicato stampa  parole che non si sentivano pronunciare da più di un decennio in riferimento alle posizioni delle parti: “I ministri hanno discusso un’ampia gamma di questioni relative alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh e concordato sulla necessità di prendere provvedimenti concreti per preparare le popolazioni alla pace. Durante le riunioni, i copresidenti hanno esaminato con i ministri i principi e i parametri chiave per la fase attuale del processo di negoziazione […] e hanno preso in considerazione i prossimi passi verso un possibile vertice tra i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia con lo scopo di dare un forte impulso alla dinamica dei negoziati”.

Quindi una valutazione delle proposte avanzate finora, la pianificazione del futuro lavorio diplomatico al massimo livello politico, e – finalmente e forse – la moderazione di quella propaganda nazionalista e violenta che ha reso le popolazioni ostili a qualsiasi compromesso, senza il quale nessuna pace può essere raggiunta. Più volte, proprio sulle pagine di OBC Transeuropa, è emerso come la questione del linguaggio dell’odio stia contribuendo attivamente al deterioramento della sicurezza e delle prospettive di pace, ad esempio nei due articoli Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio e Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia.

Le reazioni

Nel contesto di relazioni internazionali tese e complesse, un segno positivo in un’area di così grandi criticità è stato accolto con viva soddisfazione e speranza. Ed è proprio il Segretario Generale ONU António Guterres ad aver commentato  con una sua dichiarazione pubblica il 17 gennaio il lavoro diplomatico in corso elogiando il costante impegno delle parti a trovare una soluzione negoziata e pacifica al conflitto e accogliendo con particolare favore l’accordo dei ministri azerbaijano e armeno sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace. La dichiarazione della massima carica dell’ONU è un tassello importante per capire quanto il processo in corso possa essere qualcosa di sostanziale.

Alle parole di Guterres hanno fatto seguito le dichiarazioni europee. Il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso Meridionale Toivo Klaar ha scritto sul suo profilo twitter che “preparare le popolazioni per la pace è fondamentale e l’UE è impegnata a sostenere questo processo”.

Lo European Union External Action Service  di Federica Mogherini ha ribadito la posizione dell’Unione e l’importanza della questione del Karabakh per tutta la regione, sottolineando che tutti trarrebbero beneficio da una pace duratura che contribuirebbe a consentire alla regione del Caucaso meridionale di realizzare il proprio potenziale.

Se la comunità internazionale è unanime nell’accogliere la possibilità di costruire la pace, il tema delle concessioni necessarie al raggiungimento di un compromesso ha acceso il dibattito a livello nazionale. In Armenia sono i Repubblicani in particolare a punzecchiare il governo. Il vice-presidente del partito Armen Ashotyan dal suo profilo Facebook ha posto cinque domande al nuovo governo, accusandolo già di aver tradito le promesse fatte, in particolare quella di riportare le autorità de facto del Nagorno Karabakh al tavolo negoziale, dando così legittimazione politica internazionale alla loro esistenza.

Un campo minato

Che costruire la pace in Nagorno Karabakh e fra Armenia e Azerbaijan non sia una passeggiata è evidente, e non solo per le dichiarazioni dell’opposizione politica interna nei due paesi interessata ovviamente a screditare l’azione di governo su un tema così avvertito e delicato. La fiducia fra i due paesi passa sotto il fuoco incrociato, letteralmente: il cessate il fuoco viene violato quotidianamente lungo una linea di contatto fra eserciti che ormai si insinua entro i confini di stato riconosciuti, tra Armenia ed Azerbaijan, e non solo lungo la linea che demarca il confine de facto del Karabakh. Sono state 180 le violazioni del cessate il fuoco registrate dalle autorità della regione secessionista  solo dal 13 al 19 gennaio di quest’anno, corrispondenti ad una pioggia di 1300 proiettili, e nel solo weekend del 19 gennaio il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha registrato una settantina di violazioni  . E questo è considerato un periodo di netta distensione militare.

Un campo minato mai sanato, il Karabakh, anche in questo caso letteralmente. Se si continua a sparare, si continua anche a morire o rimanere feriti per le mine disseminate trent’anni fa. L’ultimo caso il 16 gennaio scorso quando Arman Mikaelyan, residente a Tavush, ha perso una gamba a causa di una mina  .

Una diffidenza che passa non solo per il fuoco, ma anche per tutta una serie di misure restrittive. Sono chiusi ad esempio i confini tra Armenia e Azerbaijan ed è limitata la libertà di movimento, con un numero crescente di soggetti coinvolti, incluse cittadinanze terze. È di questi giorni poi la polemica fra Russia e Azerbaijan riguardante cittadini russi di origine armena che non sarebbero stati ammessi nel paese. La Russia ha denunciato  una violazione della normativa vigente per motivi di discriminazione etnica. L’Azerbaijan ha risposto  che a fronte di numerosi russi regolarmente accolti non accetta né critiche né ultimatum. Toni inusitatamente ostili fra i ministeri degli Esteri dei due paesi che dimostrano come il vecchio conflitto si innesti in dinamiche tutte attuali e contribuisca a estendere l’area di tensione.

Un campo minato da bonificare, e una strada verso la pace che è tutta in salita. Ma – dopo una decade in cui si è parlato più di guerra che di pace – pare che almeno su questa strada si stia provando a incamminarsi.

Il meeting fra i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaigian il 16 gennaio sembra aprire spiragli di pace al contenzioso ma …

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