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East journal, 26 febbraio 2020 di Eugenia Fabbri

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Il Nagorno Karabakh è spesso considerato la bomba ad orologeria del Caucaso. Il conflitto che lo dilania da ormai trent’anni non è mai stato davvero congelato e sembra improbabile che nel breve periodo venga ristabilita la pace, anche a causa del frammentato coinvolgimento delle potenze internazionali, che utilizzano il conflitto per perseguire i propri interessi.

Il coinvolgimento ambiguo della Russia

La Russia è certamente il paese terzo più coinvolto e, insieme a Francia e Stati Uniti, presiede il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro creata nel 1992 per tentare di ristabilire la pace. Mosca è considerata un attore essenzialmente filo-armeno: i due paesi sono membri di diverse organizzazioni internazionali e fanno parte di una formale alleanza militare, il CSTO. Tuttavia, la Russia, pur garantendo assistenza militare a Yerevan, coltiva con l’Azerbaijan relazioni che includono la vendita di armi, da Baku chiaramente utilizzate anche nel confronto militare con l’Armenia. Tale ambivalenza è dovuta alla completa dipendenza in termini militari energetici e infrastrutturali di Yerevan nei confronti della Russia. Ciò permette a Mosca di perseguire la propria politica estera in completa autonomia, senza temere alcuna ripercussione da parte dell’Armenia.

La storica amicizia tra Turchia e Azerbaijan

Tra Turchia e Azerbaijan vi è un legame profondissimo, non solo politico, ma anche culturale. Sono entrambi paesi islamici e di lingua turca e la somiglianza tra i due popoli è tale che l’ex presidente azero Heydar Aliyev ha definito i due paesi “una nazione con due stati”. Sebbene inizialmente Ankara si fosse astenuta dal prendere posizioni nette nel conflitto, considerandolo una mera vicissitudine interna allo spazio post-sovietico, dal 1993 il suo avvicinamento a Baku è divenuto lampante: il confine tra Turchia e Armenia è stato chiuso e tra i due paesi non vi è ancora oggi alcun tipo di relazione diplomatica.

Iran, un possibile mediatore?

L’Iran è l’unica potenza regionale che potrebbe desiderare il raggiungimento di una pace che non comporti la vittoria unilaterale di uno dei due paesi sull’altro. Teheran è interessata ad evitare possibili escalation del conflitto, che potrebbero causare ulteriori flussi di rifugiati in un paese che non solo già ne ospita milioni, che presenta anche nel proprio territorio un’enorme minoranza azera.

Stati Uniti: tra pressioni interne e interesse nazionale

Il punto di vista statunitense sul conflitto è mutato nel tempo. In un primo momento hanno mantenuto una posizione filo-armena, chiaramente comprensibile dall’esclusione dell’Azerbaijan dal Freedom Support Act, un programma di aiuti varato da Washington nel 1992 a sostegno delle ex repubbliche sovietiche. La crescente rilevanza strategica dall’Azerbaijan, tuttavia, ha indotto gli USA a modificare la propria posizione, abolendo tale discriminazione nel 2001 e intraprendendo una politica dell’equilibrio che comporta il supporto finanziario di entrambi i paesi.

Quali prospettive di pace?

Tale coinvolgimento, multilaterale ed estremamente differenziato, impedisce ad oggi particolari sviluppi del conflitto. Anche un cambiamento negli assetti strategici internazionali che portasse al prevalere di uno dei due stati sull’altro probabilmente non sarebbe di per sé risolutivo e le relazioni tra i due paesi resterebbero congelate dalla frustrazione dello sconfitto. Di particolare interesse è un piano, avanzato nel 1992 dall’analista americano Paul Goble, che prevedeva una reciproca cessione territoriale, in seguito alla quale l’Armenia avrebbe rinunciato ai territori a maggioranza azera e alla striscia di terra che separa l’Azerbaijan dal Nakhchivan, ottenendo in cambio il definitivo controllo del Nagorno.

Tale compromesso fallì, fu l’Armenia in primis a rifiutarlo poiché avrebbe comportato la perdita del confine con l’Iran. Questo è un segnale importante, che richiama l’attenzione al ruolo che, al là dei delicati equilibri della politica internazionale, la disponibilità a collaborare tra i due attori direttamente coinvolti potrebbe avere nella risoluzione del conflitto. Probabilmente la vera chiave per ristabilire la pace nella regione è proprio lavorare sulla disponibilità dei due paesi a mediare, per giungere ad un compresso che a nessuno paia troppo iniquo.

– Il premier dell’Armenia ritorna in argomento riguardo l’incontro con il presidente azero e il successivo pubblico dibattito a Monaco di Baviera affermando che la discussione abbia rappresentato un punto di svolta.

«Da maggio 2018, l’Azerbaigian ha cercato di convincere l’intera comunità internazionale che l’Armenia ha una posizione distruttiva sulla questione del Karabakh» ha affermato. «Questa conversazione [di Monaco, NdR] ha chiaramente dimostrato alla comunità internazionale che l’Armenia ha una posizione costruttiva sulla questione del Karabakh, mentre l’Azerbaigian ha una posizione distruttiva, persino razzista, sulla questione del Karabakh; questo è il risultato più importante

Per il Primo Ministro, il secondo risultato più importante è che ha adempiuto una delle sue più importanti promesse al popolo armeno. «Ho detto che non avrò segreti del popolo armeno nel processo di negoziazione sulla questione del Karabakh» ha osservato Pashinyan. «L’intero popolo armeno deve essere consapevole del contenuto della questione del Karabakh».

Inoltre, ha detto, è successa una cosa molto importante a seguito di quell’incontro: «È in fase di elaborazione un nuovo contenuto dei negoziati sulla questione del Karabakh, che per convenzione chiamo Principi di Monaco».

Nikol Pashinyan ha sottolineato che se esiste una proposta per uno strumento di sicurezza altrettanto efficace, tale proposta dovrebbe essere formulata e il popolo armeno discuterà se sia accettabile o meno per loro. «Diciamo che questo status quo, quando è stato formato, quando le forze di autodifesa di Artsakh hanno preso il controllo di quei territori [i territori fuori dalla oblast del Nagorno Karabakh, NdR], hanno fatto in modo che le azioni aggressive dell’Azerbaigian venissero allontanate dal Nagorno-Karabakh per quanto possibile per renderle inaccessibili. Se esiste una proposta per uno strumento di sicurezza ugualmente efficace, sia formulata tale proposta e il popolo armeno discuterà se sia accettabile o meno per esso».

Il Primo Ministro armeno ha ribadito che il Nagorno Karabakh ha ottenuto l’indipendenza proprio come l’Azerbaigian. «Quando parlano del principio di integrità territoriale, parlano del principio di integrità territoriale di quale paese?» chiede Pashinyan che aggiunge. «Quando l’Azerbaigian ottenne l’indipendenza, mantenne l’integrità territoriale dell’Unione Sovietica? Una contro domanda può essere espressa considerando che lo stato dell’Unione Sovietica non esiste più. Ma anche lo stato in cui Nagorno Karabakh faceva parte non esiste più; quello stato era la Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian. Questo discorso ha sottigliezze che devono essere prese in considerazione».

Queste le dichiarazioni alla televisione pubblica dell’Armenia

(traduzione redazionale)

Il premier armeno Pashinyan illustra chiaramente le linee guida per arrivare a un accordo di pace risolutivo del conflitto del Nagorno Karabakh-Artsakh. Lo fa a margine della 56a Conferenza sulla sicurezza, tenutasi a Monaco di Baviera, dopo un incontro faccia a faccia con il presidente dell’Azerbaigian Aliyev e nel corso di un pubblico dibattito.

Sei sono i punti enunciati da Pashinyan:

  1. Il Nagorno Karabakh ha ottenuto l’indipendenza proprio come fece l’Azerbaigian nel 1991.
  2. Il Nagorno Karabakh è parte del conflitto e quindi dei negoziati; non è possibile risolvere il conflitto senza negoziazione con il Karabakh.
  3. Non è un problema di “territorio”, è un problema di sicurezza“; Il Nagorno Karabakh non può comprometterne la propria.
  4. Non è possibile risolvere il conflitto con due azioni, i colloqui richiedono “macro rivoluzioni“, poi delle “mini rivoluzioni” e quindi una svolta.
  5. Qualsiasi soluzione deve essere accettabile per il popolo dell’Armenia, per il popolo del Karabakh e per il popolo dell’Azerbaigian. I popoli dell’Armenia e del Karabakh sono pronti a compiere sforzi per raggiungere una soluzione. Anche l’Azerbaigian deve esprimere prontezza al riguardo.
  6. Non esiste una soluzione militare. Se qualcuno dice che esiste una soluzione militare, il popolo del Karabakh risponderebbe che il problema è stato risolto molto tempo fa .

Nel suo intervento, sostanzialmente Pashinyan enuncia tre concetti di fondo che devono essere la base del negoziato.

In primo luogo, la situazione attuale è irreversibile; l’Artsakh è un’entità indipendente al pari dell’attuale repubblica di Azerbaigian così come formatasi nel corso del processo di dissoluzione dell’Unione sovietica.

In secondo luogo, è arrivato il momento che Stepanakert sieda al tavolo negoziale perchè in gioco c’è il suo futuro e la sua sicurezza. Spetta anche all’Artsakh prendere decisioni essendo evidente che la disputa non è meramente territoriale ma riguarda appunto il diritto alla sopravvivenza della piccola repubblica armena. Un territorio completamente circondato dall’Azerbaigian (con il solo cordone ombellicale del corridoio di Berdzor) sarebbe fortemente a rischio di sopraffazione da parte del nemico.

In terzo luogo, Pashinyan ha ricordato ad Aliyev che qualsiasi velleità bellica da parte dell’Azerbaigian avrebbe conseguenze negative per Baku come la storia del conflitto negli anni Novanta ha chiaramente dimostrato.

Sono passati quasi dieci anni ma Manuel Saribekyan ha avuto giustizia. La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato all’unanimità l’Azerbaigian per la morte del ventenne del villaggio di Ttujur (Armenia nord orientale).

La corte ha dichiarato all’unanimità che ci sono state violazioni dell’articolo 2 (diritto alla vita) e dell’articolo 3 (divieto di tortura e maltrattamenti) della Convenzione europea sui diritti umani.
 
La corte ha riscontrato in particolare che i richiedenti Mamikon Saribekyan e Siranush Balyan (genitori del ragazzo) avevano sporto una istanza denunciando il fatto che il loro figlio, Manvel Saribekyan, era morto a seguito delle azioni violente di altri, in particolare del personale del dipartimento di polizia militare di Baku, dove si trovava in custodia. Gli esponenti rifiutavano di accettare come veritiera la versione degli eventi delle autorità azere secondo le quali il giovane si era tolto la vita da solo impiccandosi.
 
La CEDU ha obbligato l’Azerbaigian a pagare congiuntamente ai ricorrenti 60.000 euro per danni non patrimoniali e 2.200 euro per costi e spese.
 
Manvel Saribekyan, 20 anni, residente nel villaggio armeno di Ttujur (prossimo al confine con l’Azerbaigian), si era inavvertitamente smarrito nel territorio azero a causa delle cattive condizioni meteorologiche (fitta nebbia) l’11 settembre 2010. Fu catturato dagli azeri e tradotto a Baku. E’ morto in una cella della polizia militare il 5 ottobre 2010, venti giorni dopo la cattura.

Fu torturato e ucciso.

(nella foto il giovane fotografato “in posa” dalle autorità azere con il volto tumefatto, forse già senza vita; poco dopo sarà trovato “suicidato”)

Voci globali, 15 gennaio 2020, di Violetta Silvestri

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Ci sono piccoli territori nel mondo quasi dimenticati, o sconosciuti, dove la storia di scontri etnici continua a scrivere le sue pagine. Uno di questi è il Nagorno Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, incuneata nel territorio del Caucaso, intrappolata all’interno dell’Azerbaigian e stretta tra Armenia e Iran.

Indipendente de facto, con Stepanakert centro del potere politico, a livello giuridico resta territorio nazionale azero. Nessun Paese del mondo e nessuna organizzazione internazionale ha riconosciuto lo Stato come indipendente. Sullo sfondo, infatti, c’è una lunga e irrisolta guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio.

La sua incessante ricerca di un proprio spazio politico, economico e di potere indipendente dai vicini rivali – Armenia e Azerbaigian – va avanti. Le prossime elezioni di aprile 2020 si preannunciano cruciali per la piccola e sconosciuta Repubblica dell’Artsakh.

Molta speranza è riposta in questa tornata elettorale. Si prevede, infatti, che il voto sarà il più libero nella storia del Karabakh, con più spazio per l’opposizione e meno interferenze da parte di Yerevan. L’opportunità è quella di diventare un Paese normale, mettendo fine anche all’influenza – ingerenza per molti cittadini del Karabakh – della stessa Armenia, alleata storica. Una strada piuttosto difficile, visto che questa piccola porzione di territorio rivendica la sua origine etnica armena e, addirittura, tra i candidati c’è chi sbandiera la soluzione dell’unificazione con Yerevan.
Un quadro complesso, quindi, che soltanto la Storia e l’osservazione della collocazione geografica possono in parte spiegare. La regione è a maggioranza armena che ne rivendica l’appartenenza, mentre Baku la considera parte inseparabile della propria nazione. Il Nagorno Karabakh rientra nei classici casi di geografia politica da manuale: è un’enclave per gli azeri (poiché si trova su quel territorio ma non si sottopone alla sua giurisdizione) e un’exclave per l’Armenia (la popolazione è a maggioranza armena ma la regione è staccata geograficamente dallo Stato di Yerevan).

In questo intricato scenario emergono i rigurgiti etnici della dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. E, soprattutto, sono ancora vivi i segni di anni di guerra civile mai completamente sopita. Per questo, uno dei propositi del 2020 nell’intricato quadro del Caucaso è proprio il raggiungimento di un’intesa – e della pace definitiva – tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh, per definire status e assetti dell’intera regione, scongiurando il pericolo di altri nuovi conflitti.

Per comprendere i motivi dei rapporti ancora molto tesi in questa aerea del Caucaso, bisogna tornare alla storia dei primi decenni del 1900. Il Nagorno Karabakh, popolato da armeni cristiani e da turchi azeri, è stato prima parte dell’Impero russo. Poi, dopo contese tra Armenia e Azerbaigian, nel 1920 il territorio è conquistato dai bolscevichi. Nel 1923 è diventato regione autonoma sotto il controllo dell’Azerbaigian, per volere di Stalin.

I venti di guerra sono arrivati nei concitati anni della dissoluzione dell’URSS. Dopo accese rivendicazioni tra il 1989 e il 1990 tra Yerevan e Baku – che si sono tradotte anche in drammatici episodi di vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze azere e armene nei due Stati – nel 1991 il Nagorno Karabakh ha dichiarato la sua indipendenza dopo un referendum.

La decisione, unilaterale e appoggiata soltanto dall’Armenia, ha di fatto innescato la guerra civile tra il 1992 e il 1994. Il bilancio è stato drammatico, senza portare a nessuna risoluzione duratura e condivisa. I morti sono stati circa 30.000 e i profughi 1 milione. Il cessate il fuoco e l’accordo, sostenuto dalla Russia, hanno decretato la vittoria dell’esercito armeno, a cui spettava il controllo sul Karabakh. Nella realtà, però, l’intesa non è stata mai ratificata.

Le conseguenze sono visibili ancora oggi. La tensione non è mai davvero finita, alimentata dai ricordi di pulizie etniche da entrambe le parti. E il problema della convivenza tra azeri e armeni in questa regione è di stretta attualità.

Lo stallo che dura da decenni è stato più volte interrotto dalla violazione del cessate il fuoco dall’una e dall’altra parte, con episodi di violenza. Nemmeno la creazione del cosiddetto gruppo di Minsk nel 1992 ha portato i frutti sperati. 12 nazioni guidate da Francia, Stati Uniti e Russia hanno lavorato con le parti in lotta per trovare una soluzione condivisa e duratura.

Nel 2016 ci sono stati nuovi scontri con uccisioni di centinaia di persone, che hanno gettato nuovamente nello sconforto chi sperava in una ripresa costruttiva dei negoziati. Deboli ma preziose speranze si sono riaccese nel corso del 2019.

A sostenere maggiormente le speranze di una svolta è stata l’elezione come Presidente armeno di Nikol Pashinyan nel corso della rivoluzione di velluto, un uomo considerato nuovo, con una storia alle spalle di rivolte per il cambiamento del proprio Paese, non contro le forze azere per la conquista del Karabakh.

Il  Governo di Yerevan ha dichiarato di essere pronto a cercare una soluzione di compromesso e Baku sembrava essere più aperta. Nel corso del 2019, infatti, ci sono stati diversi incontri tra le autorità dei due Stati rivali (almeno quattro stando alle cronache ufficiali) nei quali il clima è apparso più disteso e conciliante, proteso verso la ricerca di un dialogo e l’allontanamento della violenza.

I Governi armeno e azero hanno concordato di avviare progetti umanitari e di lasciare che giornalisti e parenti visitino i detenuti nelle rispettive capitali.

Ma il riavvicinamento non ha portato a soluzioni concrete e pienamente condivise. Soprattutto per quanto riguarda il ritiro delle forze militari armene nei territori rivendicati dall’Azerbaigian e la questione dell’integrità territoriale nazionale azera.

Yerevan, Baku e le autorità nella capitale del Nagorno-Karabakh Stepanakert continuano a fare richieste senza voler scendere a compromessi. Il principale nodo da sciogliere è sempre lo stesso: lo status della Repubblica dell’Artsakh.

L’Armenia appoggia la creazione e il riconoscimento di uno Stato indipendente. Baku è al massimo pronto a offrire l’autogoverno del Nagorno-Karabakh in Azerbaigian. Resta molto caldo anche il tema – e l’emergenza – dei territori adiacenti alla regione contesa. Gli azeri sono fuggiti da queste aree durante la guerra.

I coloni – per lo più armeni sfollati dallo stesso Azerbaigian – si sono di fatto trasferiti qui, con un piano di colonizzazione. Stepanakert, infatti, finanzia insediamenti che si sono espansi nella maggior parte dell’area tra Armenia e Nagorno-Karabakh. I coloni contribuiscono in modo significativo all’economia della regione separatista, principalmente attraverso l’agricoltura in forte espansione, e hanno forti legami con le case e le comunità che hanno costruito da zero.

Trovare una via da seguire che soddisfi gli interessi sia dei coloni che delle persone sfollate dalle aree adiacenti, e che implichi anche il ritorno degli azeri nelle terre dell’Azerbaigian, non sarà una sfida da poco.

Tra i propositi del 2020 c’è anche quello di riprendere i colloqui di pace in modo più concreto. L’anno sarà importante, considerando anche le elezioni in agenda nel Nagorno Karabakh che potrebbero andare a cambiare gli equilibri nei rapporti di potere e di dipendenza con l’Armenia.

In ballo c’è la stabilità di un’area, quella del Caucaso, spesso in bilico per strascichi di passate ingiustizie ancora irrisolte. E, soprattutto, c’è il desiderio di pace per le popolazioni coinvolte nell’ennesima guerra etnica.

Ilfattoquotidiano.it del 31.12.2019 di Pierfrancesco Curzi

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I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabilivecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a KazakistanTurkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.

Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.

Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.

L’intervento del ministro degli Esteri dell’Armenia, Zohrab Mnatsakanyan , al Consiglio ministeriale dell’Osce di Bratislava. Parole chiare per risolvere il conflitto.

Signor Presidente,

Cari colleghi, Signore e signori, Signor Presidente, grazie per l’ospitalità e grazie per la leadership di questa Organizzazione durante tutto l’anno!

Ieri abbiamo tenuto un altro giro di consultazioni con la mia controparte azera e i copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE, il quinto di fila solo per quest’anno. A tale proposito, voglio illustrare la posizione dell’Armenia sugli aspetti chiave dell’insediamento pacifico del conflitto del Nagorno Karabakh.

In primo luogo, non vi è alternativa alla soluzione pacifica del conflitto all’interno della copresidenza del Gruppo Minsk dell’OSCE, un formato che è obbligatorio e sostenuto a livello internazionale.

In secondo luogo, il diritto inalienabile del popolo del Nagorno Karabakh all’autodeterminazione rappresenta un principio e una base fondamentali per la risoluzione pacifica. Il riconoscimento di questo principio non deve essere limitato nell’ambito della determinazione dello status finale del Nagorno Karabakh, deve essere chiaramente e inequivocabilmente accettato. Il termine “senza limitazione” implica chiaramente anche il diritto del popolo del Nagorno Karabakh di mantenere e determinare uno status al di fuori della giurisdizione, sovranità o integrità territoriale dell’Azerbaigian. Le persistenti politiche e azioni ostili dell’Azerbaigian volte a minare e minacciare la sicurezza fisica esistenziale del popolo del Nagorno Karabakh, compresa l’ultima tentata aggressione dell’Azerbaigian contro il Nagorno Karabakh nell’aprile 2016, sottolineano l’illegittimità e l’impossibilità di rivendicare la giurisdizione dell’Azerbaigian sul popolo del Nagorno Karabakh.

L’Azerbaigian deve assumere un impegno diretto per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno Karabakh attraverso la libera espressione legalmente vincolante della volontà delle persone che vivono nel Nagorno Karabakh, il cui esito non dovrebbe avere limiti.

In terzo luogo, la sicurezza della popolazione del Nagorno Karabakh non sarà compromessa. In nessun caso la popolazione del Nagorno Karabakh dovrebbe essere lasciata senza linee di difesa sicure. Non vi sarà alcuna condizione di assumere un rischio per la sicurezza fisica esistenziale della popolazione del Nagorno Karabakh, come è avvenuto nel 1991-1994 e nel 2016. Per sottolineare questo punto, mi riferisco alla situazione nei territori del Nagorno Karabakh, attualmente occupati dall’Azerbaigian, in cui gli armeni erano stati ripuliti etnicamente e i territori sono stati completamente reinsediati dall’Azerbaigian. Questa realtà è stata recentemente presentata dalla dirigenza dell’Azerbaigian come un buon esempio di soluzione del conflitto nel Nagorno Karabakh.

In quarto luogo, la soluzione pacifica dovrebbe essere inclusiva coinvolgendo direttamente tutte le parti in conflitto. Pertanto, il Nagorno Karabakh attraverso i suoi rappresentanti eletti dovrebbe essere una parte diretta nel processo negoziale. A questo proposito, sottolineiamo la necessità del pieno impegno dei rappresentanti eletti di Artsakh nel processo di pace, in particolare sulle questioni fondamentali della sostanza. Il governo dell’Armenia non intraprenderà mai alcuna attività che possa violare il diritto del popolo del Nagorno Karabakh di determinare liberamente il proprio status politico o privarlo della proprietà di questo processo.

In quinto luogo, una soluzione pacifica non può aver luogo in un ambiente di tensioni e rischi di escalation. Pertanto, gli accordi di cessate il fuoco del 1994 e 1995 conclusi tra Azerbaigian, Nagorno Karabakh e Armenia dovrebbero essere rigorosamente rispettati e rafforzati. Dovrebbero essere attuati meccanismi di riduzione del rischio, compresi i meccanismi dell’OSCE che indagano sulle violazioni del cessate il fuoco e monitorano il regime del cessate il fuoco, anche attraverso l’espansione dell’ufficio del PRCiO [Rappresentante personale del Presidente dell’Osce in carica, NdT].

In sesto luogo, il principio di base del non uso della forza o della minaccia dell’uso della forza dovrebbe essere rispettato incondizionatamente. Le politiche di odio, intolleranza, xenofobia, armenofobia, istigate e dirette dalla leadership dell’Azerbaigian dovrebbero essere denunciate. Gli sforzi dovrebbero essere rafforzati per preparare le popolazioni alla pace e per creare un ambiente favorevole alla pace.

In settimo luogo, le posizioni massimaliste dell’Azerbaigian, che ignorano la volontà e la sensibilità del popolo del Nagorno Karabakh, sono ostacoli fondamentali a un progresso significativo nel processo di pace. L’incapacità delle autorità dell’Azerbaigian di ricambiare la richiesta di un compromesso da parte dell’Armenia è un caso specifico. Per ricordare, il Primo Ministro dell’Armenia ha dimostrato una forte volontà politica nell’annunciare che qualsiasi accordo dovrebbe essere accettabile per il popolo di Armenia, Artsakh e Azerbaigian, il che significa che l’accordo può essere basato solo su un compromesso.

Signor Presidente, l’Armenia rimane impegnata in buona fede nel processo negoziale e continuerà a lavorare costantemente per una soluzione pacifica. Allo stesso tempo, è inaccettabile che alla luce degli attuali sviluppi politici interni in Azerbaigian, quest’ultimo stabilisca le condizioni preliminari per il processo di pace, come manifestato in un documento di sintesi diffuso alla vigilia di questo Consiglio dei ministri. L’Armenia respinge tale approccio non costruttivo.

Infine, nell’ultimo mese abbiamo dimostrato un esempio modesto e tuttavia importante di rafforzamento della fiducia tra tutte le parti in conflitto. Lo scambio di giornalisti provenienti da Armenia, Nagorno Karabakh e Azerbaigian è un promettente esempio di costruzione di fiducia e dialogo inclusivo tra le parti a livello pubblico. Siamo pronti a sviluppare ulteriormente questo esempio. Inoltre, il livello relativamente basso di violenza lungo la linea di contatto e il confine internazionale, nonché l’uso della linea di comunicazione diretta dovrebbero essere sostenuti e potenziati. Tuttavia, restiamo seriamente preoccupati del fatto che, nonostante queste misure, ci siano state perdite e lesioni che avrebbero potuto essere evitate.

Mantenere gli impegni è fondamentale per creare fiducia nelle prospettive di soluzione definitiva del conflitto.

In conclusione, vorrei dare il benvenuto all’Albania come presidente entrante e augurare loro ogni successo. Grazie.

(traduzione e grassetto redazionali)

Dopo mesi di relativa calma si rialza la tensione lungo la linea di contatto tra Artsakh (Nagorno Karabakh) e Azerbaigian. E gli azeri lasciano un caduto nella terra di nessuno.

L’Esercito di Difesa dell’Artsakh ha infatti respinto un tentativo di penetrazione in territorio armeno di soldati azeri. Ne dà notizia il ministero della Difesa che indica in un punto non precisato del settore sud orientale il luogo di azione nemica.

Il fatto, peraltro sembrerebbe documentato da telecamere di sorveglianza, è accaduto domenica 22 intorno alle 16,15 ora locale. Le forze azere sono state respinte indietro alle loro postazioni ma hanno lasciato in zona neutrale un caduto.

Il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha respinto le accuse armene circa un tentativo di penetrazione ma ha ammesso la perdita di un soldato, Ramin Abdulrahmanov. Questi si troverebbe in effetti nella terra di nessuno tra le opposte postazioni difensive al punto che gli azeri avrebbero chiesto l’intervento della Croce Rossa Internazionale per rimuovere il corpo. Nei suoi comunicati ufficiali Baku non ha fornito alcuna spiegazione riguardo la presenza del soldato in quella porzione di territorio neutrale.

Si tratta del primo grave episodio di violazione del regime di cessate-il-fuoco dopo mesi di relativa calma. Per la cronaca, nella giornata di lunedì 23 a New York, a margine dei lavori della Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si incontrano i ministri degli Affari esteri di Armenia e Azerbaigian.



East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.

 

 

Il Primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il Presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, si sono incontrati a Vienna per iniziativa del gruppo di Minsk dell’Osce.

Dopo gli incontri “informali” di Dushambe, San Pietroburgo e Davos avvenuti nei mesi scontri si tratta del primo meeting ufficiale tra il leader armeno e quello azero.

L’evento, tenutosi all’hotel Bristol della capitale austriaca e iniziato alle ore 11 locali, si è articolato in due parti: un primo incontro allargato ai ministri degli Esteri dei due Paesi (Mnatsakanyan e Mammadyarov) e ai co-presidenti del Gruppo di Minsk. Dopo una breve interruzione Pashinyan e Aliyev hanno avuto un incontro privato a porte chiuse durato quasi due ore al termine del quale sono rientrati nella sala anche i rispettivi ministri degli Affari esteri.

Complessivamente il meeting è durato tre ore e un quarto. Al momento l’Osce non ha ancora diramato un comunicato ufficiale né trapelano indiscrezioni sul contenuto dei colloqui.

Uscendo dalla sala al termine del colloquio, in risposta alla domanda di un giornalista, il premier armeno ha definito l’incontro “normale”.

«Lungo, saturo, efficace» questo è il modo in cui il co-presidente del gruppo di Minsk Stefan Visconti (Francia) ha descritto la riunione di Pashinyan-Aliyev durante un briefing con giornalisti che fanno parte della delegazione del primo ministro Nikol Pashinyan a Vienna.

COMUNICATO STAMPA GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE

Vienna, 29 marzo 2019 – Il Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e il Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan si sono incontrati oggi a Vienna per la prima volta sotto l’egida dei Co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE (Igor Popov della Federazione Russa, Stéphane Visconti di Francia, e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America). All’incontro hanno partecipato anche i ministri degli Esteri Zohrab Mnatsakanyan e Elmar Mammadyarov. Anche Andrzej Kasprzyk, il rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE, ha partecipato all’incontro. L’incontro si è svolto in un’atmosfera positiva e costruttiva e ha offerto ai due leader l’opportunità di chiarire le rispettive posizioni. Si sono scambiati opinioni su diverse questioni chiave del processo di risoluzione e idee di sostanza. I due leader hanno sottolineato l’importanza di costruire un ambiente favorevole alla pace e di intraprendere ulteriori passi concreti e concreti nel processo negoziale per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Ricordando la loro conversazione a Dushanbe, i leader hanno raccomandato di rafforzare il cessate il fuoco e migliorare il meccanismo di comunicazione diretta. Hanno anche concordato di sviluppare una serie di misure nel campo umanitario. Il primo ministro e il presidente hanno incaricato i loro ministri di incontrarsi nuovamente con i co-presidenti nel prossimo futuro. Hanno anche accettato di continuare il loro dialogo diretto.