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Cento anni fa, le unità armate della prima repubblica dell’Azerbaigian hanno tentato di risolvere il problema del Karabakh che era già stato inserito nell’agenda internazionale, usando la forza e l’uccisione di massa della popolazione civile

A partire dal 22-23 marzo e per almeno una decina di giorni, più di ventimila armeni furono trucidati dalle orde azere o costretti a lasciare la città di Sushi; tutta la parte armena della quale fu rasa al suolo e incendiata.

Le antiche mura di Sushi furono riempite con i corpi di donne e bambini.

Sushi, un importante centro economico, spirituale e culturale della regione, chiamata all’epoca la “Parigi del Caucaso“, fu sottoposta a indicibili violenze nel più classico stile turco-azero. Queste atrocità, commesse con una crudeltà senza precedenti, furono guidate da Khosrov bey Sultanov, che in seguito, durante la seconda guerra mondiale, partecipò attivamente alla formazione della legione azera nei ranghi delle truppe naziste.

Dei circa 40.000 abitanti, la metà furono trucidati; decine di chiese e monumenti armeni furono distrutti. La furia genocidiaria si estese anche ad altri territori dell’Artsakh.

Tuttavia, il piano di rendere Artsakh una parte della prima repubblica dell’Azerbaigian con la spada e il fuoco fallì. A Sushi come in tutte le altre località nelle quali la violenza azera cercò di annientare la fierezza del popolo armeno e il diritto all’autodeterminazione. Tutta la popolazione armena valida (con l’aiuto anche di alcune milizie volontarie provenienti dal Zangezur (Syunik) allestì una strenua difesa e ricacciò indietro gli invasori mantenendo integra, sia pure a carissimo prezzo, la propria sovranità nazionale.

Nel mese di aprile 1920, il nono Congresso del popolo ancora una volta proclamò solennemente l’Artsakh come parte essenziale dell’Armenia.

Ora, un secolo dopo, rendiamo omaggio alla memoria di tutte le vittime innocenti e ribadiamo la determinazione del popolo armeno a vivere e prosperare in una patria libera e in pace.