Fonte: La Stampa  del 23 aprile 2018,  di Laura Mirakian

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Due fatti marcano la storia contemporanea degli armeni. Il Genocidio del 1915-22 e il Nagorno-Karabakh. Il genocidio è commemorato in un grande monumento che si erge al centro della capitale Yerevan, meta dei pellegrinaggi della diaspora. Tutto iniziò il 24 aprile 1915, con la decimazione dell’intellighenzia armena. Ho scritto una frase nel libro d’onore posto sui bordi, in ricordo di mio padre che si salvò dai massacri gettandosi, giovanissimo, nelle acque gelide del golfo di Smirne. Era il novembre del 1922. Ho sperato nella normalizzazione dei rapporti Armenia-Turchia che Erdogan aveva abbozzato negli ultimi anni 2000 all’insegna del proposito «zero problems with neighbourhood». Perché, a prescindere dal retro-pensiero turco che probabilmente ispirava questo approccio, la riscoperta di una «identità ottomana», solo quella normalizzazione potrebbe portare al riconoscimento di una verità storica troppo dolorosa per entrambe le parti. Non è stato così, il processo si è interrotto. Le condizioni sono cambiate.

Il Nagorno-Karabakh è una splendida terra verde che farebbe invidia a molti ecologisti. Montagne innevate, foreste percorse da acque purissime, valli boscose. Una terra remota in un angolo di Caucaso, pressoché sconosciuta al largo pubblico europeo. «Capitale», Stepanakert. Le virgolette sono d’obbligo perché il Nagorno Karabakh – Artsakh in armeno – non è uno Stato, è una regione contesa dell’Azerbaigian, da quando l’Unione Sovietica si dissolse lasciando intatti i confini delle ex Repubbliche caucasiche. Includendovi un territorio di tradizionale insediamento armeno, abitato per oltre il 90% da armeni. Quasi subito, nel settembre 1991, essi votano la secessione e si dichiarano indipendenti.

L’immediata repressione azera chiama in causa l’Armenia ed inizia una sanguinosa guerra tra Yerevan e Baku che dura fino al cessate-il-fuoco firmato a Biskek (Kirghizistan) nel 1994. Una Risoluzione dell’Onu investe l’Osce, organizzazione regionale di riferimento, della gestione del conflitto. L’italiano Raffaelli, allora sottosegretario agli Esteri, assume la prima presidenza del cosiddetto Gruppo di Minsk, cui partecipano fra gli altri Russia e Turchia. Negli anni, subentra una presidenza tripartita, Russia, Stati Uniti, Francia. E lo scenario diventa quello che in gergo diplomatico si chiama «conflitto congelato», ma che congelato non è. Perché episodi di scontro armato si ripetono lungo le linee di contatto (i 4 giorni di guerra del 2016), così come gli atti di violenza, e l’occupazione armena nei sette distretti azeri circostanti. A guardar bene, il conflitto esiste da secoli. I sovietici attribuirono al territorio lo status di «oblast autonomo» e a più riprese dovettero intervenire per dividere i contendenti. Il contrasto si fece più aspro a misura dell’indebolimento dell’Unione Sovietica, nel 1988 Mosca impose a Baku scuole e stampa in lingua armena, e nel 1990 assunse il controllo diretto della regione.

In una recente intervista su queste pagine, il presidente armeno Serzh Sarghsyan definisce il Nagorno Karabakh una questione «imprescindibile». Perché così imprescindibile? Non solo, o non tanto, per la presenza decisamente maggioritaria di armeni, ma perché essi sono i testimoni di un passato orgogliosamente vissuto, fino ad oggi. Il Nagorno Karabakh è considerato la culla dell’identità armeno-cristiana. Il cristianesimo armeno risale al primo secolo dell’era moderna e diventa religione di Stato nel terzo secolo, la prima chiesa nazionale al mondo. Sappiamo quanto lunga possa essere la memoria dei popoli. E quanto difficile sia individuare soluzioni eque quando sia in questione l’identità di una nazione. Abbiamo un altro caso nelle vicinanze, il Kosovo. Anche qui, sebbene la maggioranza degli abitanti sia diventata nei secoli albanese, la regione è stata consegnata alla storia come centro originario dell’identità serbo-ortodossa, splendidi antichi monasteri lo ricordano.

La battaglia di Kosovo Polje, una clamorosa sconfitta serba che aprì la strada all’avanzata ottomana verso Vienna, risale al 1389 ma è piantata come un pilastro nella memoria serba. Riemersa in tutta drammaticità durante l’ultima fase delle guerre balcaniche che portò al bombardamento Nato della Serbia, ne registriamo gli echi ancor oggi. L’identità non si può evidentemente sradicare dai popoli, che hanno tutto il diritto di preservarla, ma occorrerebbe governarla. Per farne ragione di incontro e non di contrapposizione, in nome di valori altrettanto sacrosanti, il rispetto reciproco e la civile convivenza. Più oltre, occorrerebbe riscoprire il valore della diversità. Non solo nel Caucaso, in qualsiasi altro luogo del mondo. Mille sono gli esempi nella storia dei benefici della cross-fertilization per tutti i popoli coinvolti. Tanto più che, come per «la Nave di Teseo», nulla rimane immutato nel tempo, e ogni identità acquista pezzi di altre identità, nella vicenda umana dei contatti tra le genti.

Fonte: La Stampa  del 6 aprile 2018,  di Francesco Semprini

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Nel Nagorno Karabakh in guerra per l’indipendenza: «L’Italia ci aiuti»

MARTUNI (CONFINE ARMENIA-AZERBAIJAN)
Il rintocco della campana echeggia tra i rilievi imbruniti che incoronano Dadivank. A circa 1900 metri di altitudine, il monastero dedicato alla Madre di Dio e a Santo Stepank resiste dal 1170 ai rigidi inverni e alle minacce jihadiste, simbolo senza tempo dell’orgoglio e della resistenza del popolo del Nagorno Karabakh.

Le liturgie della Chiesa apostolica armena per la ricorrenza pasquale fanno dimenticare tutto questo, almeno per qualche ora. «È la prima volta che celebriamo la Resurrezione con le autorità del Nagorno qui a Dadivank», spiega il vescovo Pargev Madirosyan. Al monastero sono giunti il presidente dell’Arzach, Baku Sahakian, assieme a centinaia di persone, che hanno allestito banchetti con cibarie e la griglia per il capretto. Dadivank è a circa tre ore di auto da Erevan, le capitale armena a cui è collegata da una strada che costeggia Monte Ararat e Lago Sevan per poi inerpicarsi sulle alture dove l’unico punto di riferimento è la frontiera in stile sovietico. «Dialogare con gli azeri? – prosegue l’alto prelato -. Abbiamo rapporti col loro leader religioso, ci siamo incontrati otto o nove volte, aiutiamo la politica e la pace, ma sull’indipendenza non si transige». L’indipendenza dell’Arzach è un mantra per il suo popolo – circa 200 mila anime – sin dalla tenera età, bambini e giovani sognano di fare i poliziotti o i soldati e combattere per il loro Paese. Questa gente del resto si sente assediata, come spiega il ministro della Difesa del Nagorno, Levon Mnatsakanyan: «Ci sono jihadisti di ritorno dalla Siria che stanno ingrossando le fila azere sulla linea di confine». Non è una novità che gli stranieri si schierino con le forze di Baku, rivela il presidente, il quale denuncia anche «l’occulta regia turca».

«Anche durante la prima guerra molti stranieri, tra cui gli afghani di Hekmatyar, sono venuti qui. Oggi accade lo stesso». Sahakian ci invita a mangiare l’agnello nella sua tenda: il profumo è sublime, il sapore di più. Gli domandiamo perché nessun Paese abbia riconosciuto l’indipendenza dell’Arzach: «Vogliono presentare questo conflitto come una guerra di religione, nulla di più sbagliato. Noi combattiamo contro i terroristi». Il pensiero va poi all’Italia, presidente di turno dell’Osce che, attraverso il gruppo di Minsk, è preposta a dirimere il contenzioso del Nagorno. «Ci aspettiamo molto dall’Italia, innanzitutto una visita qui. Ogni volta che c’è un nuovo presidente viene nella regione, ma non nell’Arzach, è ridicolo visto che l’obiettivo è affrontare il problema del conflitto». Chiede poi che venga riconosciuto il loro ruolo di bastione della sicurezza di tutto l’Occidente e, ovviamente, lo status di Paese indipendente. «Abbiamo creato uno Stato democratico e una società civile, vogliamo essere parte integrante dell’Occidente, la nostra gente, le nostre lotte, i nostri martiri hanno spianato la strada al riconoscimento». I martiri appunto, di quella che da alcuni viene soprannominata la «Catalogna del Caucaso». Ma che rispetto alla regione spagnola di sangue ne ha versato tanto, soprattutto sulla linea di confine. È lì che ci dirigiamo insieme con le brigate del Nagorno. La guida è il capitano Gegham, uno dei pochi militari a parlare inglese e con una passione per Adriano Celentano. Dopo aver lasciato Stepanakert, attraversiamo Martuni e ci fermiamo nella base avanzata orientale, dove di stanza ci sono molte donne in mimetica. La marcia riprende su mulattiere dal fondo fangoso, fino alla prima linea, davanti alla terra di nessuno e sotto il tiro dei cecchini azeri.

Il fortino sembra una trincea della Prima guerra mondiale, come del resto il conflitto a bassa intensità che si trascina da un quarto di secolo. Il capitano Armen ha 25 anni, è sposato: il 2 aprile del 2016 era a difendere la posizione qui, sulla loro «linea del Piave»: «Gli azeri ci hanno aggredito noi abbiamo resistito, i combattimenti sono durati 4 o 5 giorni, non abbiamo avuto perdite in questa postazione, probabilmente abbiamo causato perdite al nemico. Alla fine li abbiamo respinti». Se dovesse accadere di nuovo? «Indosso una divisa e sono al fronte, vuol dire che sono pronto anche a morire», dice facendo scorrere la mano sul calcio del suo Seminoff di fabbricazione sovietica. «Vorremmo che la questione si risolvesse pacificamente, ma intanto siamo qui», continua, assicurando che se il nemico dovesse attaccare di nuovo, lui e i suoi uomini sono pronti a fare di questo confine la Caporetto azera.

(pubblicato anche in edizione cartacea, pagg. 1 e 13)

Fonte: Eastwest.eu  del 6 marzo 18,  di Valentina Brini

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Lo chiamano “conflitto congelato”, ma 30 anni dopo il primo strappo dall’Azerbaijan, una logorante guerra di trincea continua a uccidere nell’autoproclamata repubblica del Caucaso. Fin qui Bruxelles le ha voltato le spalle, ma complice l’avvicinamento con l’Armenia, qualcosa ora si muove

Bruxelles – L’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh (Nkr) è la sola a parlare di sé stessa, avvolta nel silenzio degli altri, Unione Europea compresa. Un nome lontano, un fazzoletto di terra stretto tra due ex repubbliche sovietiche, Armenia e Azerbaijan dove dal 1994 – al termine di un conflitto iniziato nel 1988 e costato la vita a circa 30mila persone – continuano a morire militari e civili sul fronte di una logorante guerra di trincea. E con poco clamore, tranne durante le fiammate più intense alla “linea di contatto “ che separa Nagorno e Azerbaijan, come la “guerra dei quattro giorni”, che ad aprile 2016 uccise circa 350 persone. Ma anche in quel caso, l’attenzione per il conflitto generò solo appelli alla distensione o poco più. Poco per un’area geografica, quella caucasica, che ha un rapporto di partenariato con l’Ue ma che, nel frattempo, resta nell’orbita di Mosca.

Sono passati trent’anni dalla “giornata della rinascita dell’Artsakh” (o movimento Karabakh), la corrente popolare armena votata al passaggio del Nagorno dalla giurisdizione azera a quella armena e, quindi, alla sua indipendenza. “Se avessimo perduto l’Artsakh, avremmo voltato l’ultima pagina della storia armena” ha scritto il 20 febbraio, nel giorno del trentennale del movimento, il presidente armeno Serzh Sargsyan. Ma da allora il rumore sordo del fuoco dell’artiglieria non è mai cessato del tutto.

La paralisi della Ue

Il conflitto post-sovietico è oggi una sorta di altra Crimea da cui la Ue fugge lo sguardo. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) – il ministero degli Esteri europeo – si dichiara incompetente sulla faccenda e limita il suo contributo al finanziamento di alcune Ong – sotto l’egida denominata Epnk – e al sostegno del gruppo di Minsk, creato nel 1992 dall’Osce per cercare di risolvere la questione attraverso vie diplomatiche e presieduto da Russia, Stati Uniti e Francia. Tentativo che si può definire fallito.

«Non c’è una soluzione militare», ha detto a febbraio l’Alto rappresentante della Ue Federica Mogherini. «La ripresa del dialogo di alto livello a Vienna, San Pietroburgo e Ginevra è uno sviluppo importante», ha sottolineato, facendo appello affinché le parti «intensifichino i negoziati e riducano la tensione sulla linea di contatto». «Crediamo che lo status quo sia insostenibile. Serve una soluzione politica, in accordo con il diritto internazionale», ha aggiunto. Di proposte concrete, però, nemmeno l’ombra.

Accordi diversi

Finora, infatti, la Ue ha trattato separatamente con Armenia e Azerbaijan, su un piano diverso, parlando pubblicamente di rado della questione. Il corteggiamento degli azeri, che da tempo si sono sganciati da Mosca, nei confronti dell’Europa non è una novità. Eppure, l’unica firma per una collaborazione rafforzata e comprensiva (Cepa), in particolare nei settori dell’ambiente e del commercio, a Bruxelles è arrivata solamente con l’Armenia, nel corso dell’ultimo summit sul partenariato orientale, lo scorso novembre.

Un’intesa che significa, per la Ue, aprire nuove opportunità commerciali con Erevan. Cosa che non è stato possibile garantire all’Azerbaijan – “buoni progressi” sul negoziato, recitava la sterile nota finale del summit – con cui Bruxelles non è nemmeno riuscita a finalizzare gli accordi per un’area comune per l’aviazione civile. “Esportare stabilità o importare instabilità” è il mantra della politica di allargamento europea, da estendere anche al partenariato orientale. Per esportare stabilità, però, non è utile la paralisi di Bruxelles sul Nagorno-Karabakh – rintracciabile anche in altre questioni come il riconoscimento del Kosovo nei Balcani occidentali, che ha vissuto un’accelerazione solamente nell’ultimo anno –.

Giustizia storica, agire sulla linea di contatto

Un senso di giustizia storica è invece ciò che serve davvero al popolo del Nagorno-Karabakh per conquistare la pace. Il giornalista ceco Jaromir Stetina, presente sul territorio durante il conflitto del 1988-1992, non si tira indietro e lo ha detto apertamente di fronte al Parlamento europeo il 28 febbraio scorso, nel corso di una conferenza sul conflitto organizzata dalle associazioni Amici europei dell’Armenia e Unione di benevolenza generale Armenia Europa.

«Sostenere le attività di sminamento nella regione, uno dei territori con più mine al mondo, e monitorare il rispetto dei diritti umani nell’area è il minimo» ha detto il chirurgo militare Eleni Theocharous, di origine cipriota, che come Stetina ha vissuto il conflitto. Finora, a rimuovere le mine nel Nagorno è stata l’Ong britannica Halo Trust, finanziata principalmente da privati. All’Ue, ricordano le associazioni, basterebbero 3,5 milioni di euro per completare l’opera anti-mine.

Se dal Seae si leva solo il silenzio, a lasciare speranze di eco alla voce di Bruxelles ci provano alcuni eurodeputati. «Coinvolgere direttamente il Nagorno-Karabakh al tavolo dei negoziati con Armenia e Azerbaijan è un modo per ottenere qualcosa» hanno detto Frank Engel e Lars Adaktusson, del Partito popolare europeo. Partire, insomma, dalla linea di contatto. Quella linea che è Nagorno. Un ossimoro, forse, che potrebbe però tramutarsi in un’apertura, unica via di fuga europea nell’area caucasica per esportare la tanto proclamata stabilità.

E allora ecco spuntare il modello del dialogo tra Belgrado e Pristina: una trattativa che Bruxelles ha intrapreso per i Balcani e dovrebbe seguire in un’area della medesima importanza per gli equilibri geo-politici e, più semplicemente, per la vita dei civili. Dieci le proposte concrete per superare la paralisi: da uno spazio destinato agli scambi tra la società civile azera e armena, a incontri frequenti delle Ong sia a Erevan che a Baku. E poi, ancora, programmi su salute, servizi di base e istruzione a sostegno delle comunità colpite dal conflitto su entrambi i lati della linea di contatto, attività di monitoraggio per i diritti umani, impatto sulle giovani generazioni.

Gli abitanti della regione sono gli unici su cui fare leva, assicura la giornalista di origini armene-bulgare, Tsvetana Paskaleva: «Le persone di Nagorno-Karabakh vogliono essere parte di questo mondo, io sono orgogliosa di conoscerli e so che loro sono pronti per essere riconosciuti».

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso  del 1 marzo 18,  di Aleksey S. Antimonov

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Da trent’anni, al confine tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan rieccheggiano fitte sparatorie: il rumore incessante del più antico “conflitto congelato” nell’ex Unione Sovietica. Tuttavia, per coloro che vivono nel Nagorno-Karabakh, da quando è stato firmato il cessate il fuoco del 1994, questo confine è sembrato andare sempre più lontano, quasi fino a svanire dall’orizzonte della rilevanza.

Gegham Baghdasaryan, a capo del Karabakh Press Club, ha illustrato questa situazione in un aneddoto raccontato a OC Media: anni fa, in una conferenza internazionale, fu chiamata a parlare una giovane donna armena del Karabakh. Alla domanda sul rapporto tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan, rispose: “Qual è il mio rapporto con l’Azerbaijan? Non esiste. Voglio solo essere lasciata in pace”.

Questa opinione è condivisa da molti in Karabakh. Un giovane sui venticinque anni ha detto che gli eventi di aprile gli avevano “aperto gli occhi” rispetto al “vero pericolo” rappresentato dall’Azerbaijan. Per lui e altri giovani, il cessate il fuoco era l’unica realtà conosciuta, e la retorica bellicosa e il lento, costante dribbling di morte sul confine erano diventati un rumore di fondo, fisso e permanente come le colline e il cielo.

Dagli scontri di aprile 2016 – quattro giorni di feroci combattimenti conclusi con oltre un centinaio di vittime e l’occupazione da parte dell’Azerbaijan di diverse posizioni chiave precedentemente controllate dalle forze armene – il conflitto ha assunto un’acuta immediatezza. Lo shock iniziale per la popolazione del Karabakh si è trasformato in rabbia sia verso l’Azerbaijan che verso la perdita di un senso di normalità.

Alcuni anni fa, le fiammate nel conflitto prolungato avrebbero potuto essere viste sia dagli abitanti che dai politici come eccezionali, ma questa recente violenta eruzione sembra aver consolidato nelle loro menti la sensazione che, piuttosto che un’eccezione, la guerra sia il normale stato di cose, e che gli interessi militari debbano circoscrivere e sommergere tutti gli altri.

Ricostruzione

La guerra del Karabakh è durata dal 1988 al 1994. Ha causato oltre 30.000 vittime, quasi un milione di sfollati e la completa devastazione di economia e infrastrutture. La regione ha subito danni per 5 miliardi di dollari (con una popolazione di soli 140.000 abitanti), ulteriormente aggravati dalla deindustrializzazione seguita al crollo dell’URSS.

Tuttavia, il Nagorno-Karabakh è sopravvissuto ed è stato ricostruito, con il sostanzioso aiuto dell’Armenia e le donazioni della diaspora armena. Nel 2007 ha avuto il tasso di crescita del Pil più alto della regione, tra il 10% e il 15% all’anno. Inoltre, a differenza dell’Armenia, non ha sofferto di calo demografico, con una crescita della popolazione del 10% tra il 2005 e i giorni nostri.

Questo letterale “risorgere dalle ceneri” è più evidente nella capitale del Karabakh, Stepanakert, che nel resto della regione. Da città bombardata con più di una rassomiglianza con la Sarajevo del dopoguerra, negli ultimi anni si è trasformata in un vivace centro urbano, con viali ben pavimentati, giardini ben curati e una vasta gamma di servizi pubblici.

La tigre caucasica

“All’inizio [lo sviluppo economico del Karabakh] era un’impresa patriottica”, ha dichiarato a OC Media Davit Babayan, portavoce dell’ufficio del presidente del Nagorno-Karabakh. “Ma non può funzionare per sempre”. Babayan sostiene che il motore economico del Karabakh negli ultimi dieci anni è stato l’impegno per un’economia “guidata dal mercato” e che solo creando “condizioni speciali per gli investimenti” lo sviluppo del Karabakh potrà continuare.

Ufficialmente, il Nagorno-Karabakh ha intrapreso un percorso esplicitamente orientato al mercato dal 2007, quando sotto la direzione del neo-eletto presidente Bako Sahayan ha intrapreso riforme economiche (neo)liberali, quali: la dissoluzione del servizio anti-monopolio (con lo slogan “Il mercato troverà la soluzione”), la creazione di una flat-tax per i lavoratori autonomi ($15 al mese) e la riduzione dei regolamenti sulle licenze di costruzione (solo tre giorni per l’approvazione di una nuova licenza). Le riforme hanno comportato anche la privatizzazione di una serie di beni di proprietà statale, in particolare l’azienda idroelettrica regionale.

In congiunzione con i tassi stellari di crescita economica, queste riforme hanno trovato consenso fra le voci liberali nella regione, che hanno persino definito il Karabakh “la tigre caucasica”.

Tuttavia, come le “Tigri asiatiche”, il Karabakh è meno miracolato dal mercato di quanto voglia far credere. Il suo rapido sviluppo è stato possibile solo grazie a importanti interventi governativi sul mercato e, in modo forse ancora più importante, ai continui trasferimenti di fondi dalla Repubblica di Armenia. Questo stato di cose è reso possibile solo dalla posizione geopolitica e ideologica unica del Karabakh.

Il cuore dell’Armenia

Il Nagorno-Karabakh è indubbiamente il fattore più volatile nella politica armena. Non è semplicemente un luogo, ma un’idea. Rappresenta la nazione armena e, in un paese in cui il genocidio armeno del 1915 definisce ancora la politica estera, fornisce una potente contro-narrazione al senso di vittimismo storico. Come ha dichiarato l’analista politica originaria del Karabakh Karen Avagimyan a OC Media, è “il cuore spirituale dell’Armenia”.

In termini pratici, ciò significa che se una parte significativa del territorio del Karabakh viene ripresa dall’Azerbaijan, il governo di Erevan probabilmente non sopravviverà. Ad esempio, nell’estate del 2016 un gruppo di veterani del Karabakh che si autodefinivano Sasna Dzrer (i Daredevil di Sasun) ha sequestrato una stazione di polizia e invitato alla rivolta contro il governo. Il punto centrale delle loro critiche al governo era l’affermazione secondo cui l’attuale amministrazione intendeva cedere parte del Karabakh all’Azerbaijan: un’affermazione falsa, ma che ha mobilitato migliaia di giovani che si sono scontrati con la polizia in difesa dei Sasna Dzrer.

La politica del governo armeno nei confronti del Karabakh e le politiche dello stesso governo del Karabakh vanno interpretate alla luce di questi eventi. L’integrità territoriale del Karabakh è l’obiettivo primario a cui subordinare tutte le politiche economiche e sociali.

Poiché il Nagorno-Karabakh è uno stato non riconosciuto, è escluso dalla maggior parte dei trattati commerciali internazionali. Ciò significa che il governo deve mantenere e pubblicizzare un clima favorevole agli investimenti se vuole continuare a ricevere investimenti “non patriottici” (principalmente dalla Federazione Russa). Tuttavia, questo crea un certo dilemma per le autorità. I mercati liberalizzati e amici degli investitori spesso promuovono gravi disuguaglianze sociali, con lavoratori locali meno competitivi e piccole imprese schiacciate dalle economie di scala. Come in gran parte del mondo, la povertà si trasforma facilmente in emigrazione, che è abbastanza tollerabile per la maggior parte dei governi, ma semplicemente fuori questione in Karabakh.

Agli occhi dei funzionari del Karabakh, l’emigrazione equivale a minore popolazione, minore popolazione significa meno soldati, e meno soldati non solo rendono il Karabakh militarmente più debole, ma incentivano l’Azerbaijan ad attaccare. Ciò significa che l’economia non può essere soggetta ai capricci del mercato, poiché le fluttuazioni della popolazione derivanti da periodiche crisi economiche metterebbero letteralmente in pericolo il Nagorno-Karabakh: il neoliberismo tout court non è quindi un’opzione sostenibile.

Socialdemocrazia militarizzata

In pratica, le politiche attuate per garantire stabilità economica e vivibilità nel Nagorno-Karabakh possono essere considerate una sorta di socialdemocrazia militarizzata: sono previsti meccanismi di welfare per ridurre l’impatto della disoccupazione o della povertà, ma differiscono dalla tradizionale socialdemocrazia europea in quanto questi meccanismi sono legati esplicitamente allo status militare. Ad esempio, una grande parte della popolazione sopravvive con pensioni militari e le famiglie di soldati uccisi o feriti al fronte hanno spesso anche alloggi gratuiti o altri beni e servizi essenziali. Lo stato assicura e risarcisce tutti i residenti vicino alla linea di contatto contro qualsiasi danno causato dal conflitto (come le case danneggiate dai bombardamenti o il bestiame ucciso da colpi di arma da fuoco).

Questo non vuol dire che il governo non faccia uso della tradizionale politica keynesiana. Al contrario, interviene spesso con sussidi e prestiti preferenziali ad imprese in difficoltà, tenendole a galla per garantire l’occupazione.

Questo può sembrare un po’ troppo per un governo che presiede una popolazione relativamente povera di 146.000 persone, e infatti è così. Il governo del Nagorno-Karabakh è tutt’altro che autosufficiente. Ufficialmente, almeno il 4,5% del bilancio nazionale dell’Armenia è stanziato per la regione, anche se il dato reale è probabilmente molto più alto, soprattutto perché i dati relativi a trasferimenti di bilancio relativi alla difesa sono tenuti riservati.

Questa direzione politica non ha fatto che consolidarsi dagli scontri di aprile. I villaggi vicini alla linea di contatto sono stati classificati “villaggi di confine”. Qui, secondo il portavoce del Primo Ministro Artak Beglaryan, lo scopo esplicito del governo è quello di mantenere e, se possibile, aumentare la popolazione al fine di creare una presenza che possa rilevare e scoraggiare gli attacchi azeri: un compito difficile, poiché questi villaggi sono direttamente sulla linea del fuoco, il che comprensibilmente scoraggia gli abitanti dal rimanere.

Ecco perché in questa nuova legislazione il governo ha aumentato i sussidi per questi villaggi – ad esempio, con un sussidio gas ed elettricità che copre interamente le bollette mensili per alcune famiglie – oltre a fornire sussidi e agevolazioni fiscali per gli investimenti nei villaggi di confine al fine di stimolare l’occupazione.

Ma la misura in cui il governo è disposto a lasciarsi alle spalle l’ortodossia economica neoliberale è ancora più evidente nel villaggio più colpito dal conflitto: Talish.

Un kolkhoz è un kolkhoz

Nelle prime ore del 2 aprile 2016, le colline nordoccidentali sopra il piccolo villaggio di 500 abitanti sono state invase dall’esercito azero. Quando le forze armene riuscirono a riconquistare Talish, era stato ridotto in macerie e, anche dopo la firma del cessate il fuoco, le colline strategiche che dominavano il villaggio sono rimaste in mano azera.

Con la maggior parte delle case distrutte, la popolazione di Talish è diventata senzatetto, ospitata presso parenti o in alloggi forniti dallo stato nei villaggi vicini, più lontano dalla linea di contatto. Tuttavia, anche nella sua attuale posizione strategicamente vulnerabile, il governo del Karabakh si è impegnato nella ricostruzione di Talish e nel ritorno dei suoi abitanti.

Ogni singola famiglia che ha perso la casa ne otterrà la ricostruzione. L’infrastruttura sarà riparata e ammodernata. Verranno inoltre aggiunti nuovi edifici, tra cui una casa della cultura e un centro ricreativo. Ma questi non sono i piani più ambiziosi per il villaggio: al fine di garantire un elevato livello di occupazione e un forte grado di solidarietà sociale, il villaggio sta ricostruendo le sue infrastrutture agricole e produttive in un modello collettivo.

Nelle parole del sindaco Vilen Petrosyan: “Sarà come un kolkhoz sovietico, ma diverso. Invece di dare i nostri profitti al governo, la comunità deciderà che cosa farne”. Gli inizi di questo nuovo/vecchio modello sono già in atto. Il “collettivo” di Talish produce miele, frutta e verdura, alcolici, carne e latticini. Le decine di lavoratori impiegati nell’impresa sociale sono ex residenti (tutti uomini) che sono tornati al villaggio come appaltatori governativi, lavorando per ricostruire le proprie case e difenderle in caso di un attacco.

Resta da vedere se il modello funzionerà e se sarà effettivamente democratico, ma la speranza dell’amministrazione locale è che il nuovo Talish non solo fiorisca, ma divenga un modello di economia e governance per altri villaggi nel Nagorno-Karabakh.

In viaggio da nessuna parte

Dal 1994 in poi, gli abitanti del Nagorno-Karabakh sperano in una normalizzazione pacifica della loro situazione. Ma, con il fallimento di un accordo di pace dopo l’altro, molti si erano adattati ad un nuovo status quo. Anche se la pace non fosse mai arrivata, la vita sarebbe andata avanti. Ma gli eventi dell’aprile 2016 hanno frantumato questo inquieto senso di stabilità.

Tuttavia, con una strana ironia, mentre il senso di stabilità del popolo del Karabakh andava in frantumi, l’ordine economico e politico esistente si rafforzava. Forgiata nel crogiolo del conflitto e ancora devastata quasi trent’anni dopo, la regione del Nagorno-Karabakh ha cessato di essere un luogo in cui l’esercito esiste per sostenere lo stato e la società. Ora, stato e società esistono per sostenere l’esercito, ed è improbabile che la situazione cambi presto.

Fonte: Notizie  geopolitiche, 16 febbraio 18,  di Giuliano Bifolchi

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STEPANAKERT. George Friedman, analista e fondatore della nota agenzia di Intelligence statunitense Stratfor e attuale direttore di Geopolitical Future, sosteneva nel 2008 in “The Methodology of Geopolitics: Love of One’s Own and the Importance of Place” che la nascita in un luogo ben preciso è un elemento fondamentale per ogni individuo perché questo permette a qualsiasi persona di identificare sé stessa molto di più rispetto all’appartenere a un determinato paese e possedere una determinata cittadinanza. Questa affermazione trova il suo massimo riscontro nella Repubblica di Artsakh, dove le persone esprimono un forte attaccamento alla loro terra di origine che permette di identificarli. È proprio questo connubbio uomo-terra natia che categorizza gli abitanti della Repubblica di Artsakh che hanno da sempre rivendicato la loro appartenenza alla loro madre patria anche quando non esisteva uno stato che potesse conferirgli il ruolo di “cittadini della Repubblica di Artsakh”. Partendo da questo concetto si può comprendere il perché coloro che abitano nella regione del Nagorno Karabakh hanno da sempre rivendicato le loro origini e per questo hanno combattuto e continuano a combattere per poter vivere in questo angolo di mondo in rispetto delle proprie tradizioni e cultura.
La Repubblica di Artsakh, situata nel Caucaso meridionale è de facto uno Stato sorto con la disgregazione dell’Unione Sovietica e a seguito del conflitto del 1992-1994 che ha visto contrapposti la maggioranza etnica armena del Nagorno Karabakh, sostenuta dalla Repubblica di Armenia, e la Repubblica dell’Azerbaigian. Tale conflitto fonda le sue radici nell’era sovietica fino a quando nel 1988, a seguito di una serie di atti di violenza da entrambe le parti, gli armeni della regione del Nagorno Karabakh o Artsakh manifestarono attraverso il voto la propria volontà di secessione dall’Azerbaigian e indipendenza dando vita alla Repubblica del Karabakh Montagnoso (Nagorno-Karabakh) – Artsakh. Gli eventi portarono poi al conflitto del 1992-1994 terminato con il cessate il fuoco seguito da un processo di pace che vede tuttora coinvolto il Gruppo di Minsk dell’OSCE presieduto da Francia, Stati Uniti e Federazione Russa, ma che fino ad ora ha prodotto pochi risultati tangibili a causa non solo delle diverse posizioni di armeni e azeri, ma anche dei giochi geopolitici che investono una regione di primaria importanza strategica come il Caucaso meridionale, luogo di passaggio di oleodotti, gasdotti e vie di comunicazione nord-sud e ovest-est.
Non riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, la Repubblica di Artsakh (nome adottato a seguito del referendum costituzionale del 2017) vive in una continua situazione di tensione condividendo con l’Azerbaigian una linea di contatto che vede contrapposti soldati armeni a quelli azeri in un “conflitto congelato” sempre pronto a riesplodere come accaduto lo scorso aprile 2016. L’Armenia rappresenta l’alleato dell’Artsakh per motivi di natura culturale e storica e funge da interlocutore nel processo di negoziazione per la pace avviato dopo il 1994 con l’Azerbaigian. Proprio visitando la linea del fronte che quotidianamente vede contrapposte le forze armene a quelle azere in una attività di continuo controllo è possibile capire l’importanza dell’Armenia: nella base militare vicino a Martakert sventolano in alto le bandiere armene e dell’Artsakh mentre i soldati che si apprestano a iniziare l’anno accademico di formazione che li poterà poi a difendere la propria madre patria per 2 anni cantano l’inno dell’Armenia.

Linea del fronte costituita da trincee che rimandano il pensiero ad un secolo fa quando in Europa si combatteva il primo conflitto mondiale e giovani di 18-19 anni vivevano rintanati lungo la linea di difesa attendendo l’attacco nemico o l’ordine di avanzare. È negli occhi dei ragazzi armeni che si legge la fierezza di combattere per la propria madre patria, ma anche la delusione per una adolescenza presto perduta: è in questa linea del fronte montuosa che i versi poetici di Giuseppe Ungaretti in “I soldati” scritti nel 1918, “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, riscoprono ancora una volta la loro triste verità. Perché in questa parte di mondo a molti sconosciuta si continua a combattere e mensilmente si devono aggiornare i bollettini delle vittime da entrambe le parti.
È proprio questo che rende la visita nella Repubblica di Artsakh particolare e speciale: in questa regione si ritrovano sentimenti di amore per per la propria terra e odio o desiderio di rivincita nei confronti del nemico che in Europa sembrano apparentemente essere svaniti. Visita in Artsakh problematica per giornalisti, ricercatori e anche turisti per quel che riguarda la diplomazia perché l’Azerbaigian sin dal cessate il fuoco del 1994 ha sempre rivendicato la propria sovranità territoriale sulla regione del Nagorno Karabakh e su sette distretti limitrofi (circa il 20% del territorio azerbaigiano), considerati sotto occupazione armena. Quindi, effettuare una visita per qualsiasi scopo in Artsakh passando per l’Armenia viene inteso dal governo di Baku come una violazione della propria legge il cui risultato è quello di essere inserito in una “lista nera”, commentata da Masis Mailian, ministro degli Esteri dell’Artsakh, come “una violazione dei diritti umani il cui risultato è stato controproducente per l’Azerbaigian. Il fatto che giornalisti e turisti visitino il nostro paese e che il loro numero sia in aumento dimostra come la politica di Baku non sta riscuotendo i desideri sperati, anzi comprova maggiormente la mancanza di logicità. Nel 2017 – ha aggiunto Mailian – abbiamo avuto più di 100 giornalisti in visita nel nostro paese e un incremento del turismo pari a +52% rispetto all’anno precedente”.
Per quel che riguarda le relazioni internazionali e la diplomazia il ministro degli Esteri ha sottolineato il ruolo di interlocutore dell’Armenia che garantisce alla Repubblica di Artsakh la possibilità di vedere rappresentate le proprie richieste non solo nel Gruppo di Minsk dell’OSCE, visto che l’Azerbaigian non vuole interloquire con l’Artsakh “anche se noi siamo stati parte attiva e direttamente interessata dal conflitto e quindi dal successivo processo di negoziazione”, afferma il ministro degli esteri, ma anche in altre organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e l’Unione Europea. “L’Artsakh è pronto a entrare nella NATO e nelle Nazioni Unite”, ha dichiarato Mailian guardando a questa eventualità come un ulteriore mezzo per il riconoscimento internazionale, primo obiettivo per il governo di Stepanakert. “Il nostro esercito è operativo e ha dimostrato il proprio valore nelle attività di individuazione di intrusioni nemiche e contrattacco. I nostri soldati possono cooperare in esercitazioni militari e missioni all’estero. Dal nostro punto di vista non esiste nessun impedimento legale e militare nella cooperazione della Repubblica dell’Artsakh con i paesi della NATO”.

Rispondendo alle accuse di Baku, che definisce il Nagorno Karabakh e sette distretti limitrofi come parte del proprio territorio sovrano occupato dall’Armenia, il ministro degli Esteri ha affermato che “gli azeri sono come i turchi i quali vogliono appropriarsi o conquistare parte della Siria e dell’Iraq. La speranza è che il governo di Baku possa rispettare gli accordi presi con l’Armenia e con i co-presidenti del Gruppo di Minsk, anche se più volte l’Azerbaigian ha dimostrato la volontà di disattendere tali accordi preferendo la via militare”.
È in questi giorni di febbraio, nello specifico il 13, che si svolge il 30mo anniversario dei movimenti di indipendenza del 1988 che diedero il via al processo che portò in seguito alla nascita della Repubblica del Nagorno Karabakh-Artsakh. Nelle manifestazioni di piazza organizzate a Stepanakert a cui hanno partecipato tutti i membri della leadership politica e militare della Repubblica di Artsakh si legge chiaramente come la pace sia un obiettivo lontano perché gli eventi che hanno preceduto il conflitto del 1992-1994 e i fallimentari anni di negoziazione hanno via via allontanato armeni e azeri, che in passato vivevano insieme sotto l’Unione Sovietica, lasciando lo spazio invece a sentimenti di nazionalismo, rivincita, odio e diffidenza per il nemico a cui si devono aggiungere gli interessi territoriali e geopolitici che coinvolgono direttamente azeri e armeni e indirettamente le potenze internazionali come Russia, Stati Uniti e regionali come Iran e Turchia.

Diffidenza più volte ribadita da tutte le persone incontrate in Artsakh e anche dall’Arcivescovo Pargev Martirosyan, Primate della Diocesi di Artsakh della Chiesa Apostolica Armena, il quale ha affermato che “diverse volte l’Azerbaigian ha attaccato la nostra terra dimostrando la volontà di non rispettare il processo di pace e gli accordi presi con il Gruppo di Minsk dell’OSCE”. “Noi non vogliamo la guerra, ma siamo pronti al conflitto qualora venissimo attaccati”, ha continuato Martirosyan aggiungendo che seppure “preghiamo per la pace non solo per noi stessi, ma per tutto il mondo, viviamo in una zona di conflitto dove il nostro popolo, le nostre famiglie e anche i nostri preti sono a diretto contatto con il pericolo. Se la guerra dovesse arrivare noi saremo pronti”. Questo essere pronti alla guerra è un messaggio che spesso è stato ribadito dall’arcivescovo il quale rischia di sostituire o modificare il messaggio di pace caratteristico del Cristianesimo: “il porgere l’altra guancia predicato da Gesù – sottolinea Martirosyan – riguarda soltanto familiari, amici e conoscenti ma non i nemici. Quando questi giungono nel tuo territorio per conquistarlo e minacciano la vita dei cittadini che vi abitano il tuo dovere è quello di affrontarli e neutralizzarli”. Parole che suonano come una dichiarazione di guerra e che fanno ancor più eco perché pronunciate da un uomo di fede le quali sono state attenuate però dalla costatazione finale che “non esiste una guerra eterna al mondo…presto o tardi questo conflitto finirà e il nostro popolo potrà vivere in pace”.

Occorre sottolineare come lo scontro tra armeni e azeri per l’Artsakh è di tipo territoriale e non religioso: lo stesso Martirosyan afferma che “gli abitanti dell’Artsakh non hanno nessun problema con i musulmani. Abbiamo diverse comunità armene della Diaspora in paesi arabi e buone relazioni con Iran, Kazakhstan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, e Kyrgyzstan. I nostri problemi riguardano soltanto i turchi a causa del Genocidio Armeno che continuano a non riconoscere e gli azeri. Chi parla di guerra di religione sono soltanto quelle organizzazioni il cui fine è quello di creare odio tra cristiani e musulmani e distogliere l’attenzione sul vero motivo del conflitto che contrappone i nostri cittadini, i quali lottano per la loro madre patria, e l’Azerbaigian”. Giuste affermazioni che però non trovano un reale riscontro nella demografia dell’Armenia e dell’Artsakh per quel che riguarda la composizione etnica e religiosa: in Armenia, secondo quanto si legge dal CIA World Factbook, il 98.1% della popolazione è composta da armeni seguita poi dagli yazidi (1.1%), da russi (0.4%) e da ulteriori minoranze tra cui greci, assiri, ucraini, curdi, georgiani, bielorussi, mentre per quel che concerne la religione il 92.6% degli armeni appartengono alla Chiesa Armena Apostolica, l’1% a quella Evangelica, il 2.4% ad altre credenze religiose come l’ebraismo. In Artsakh, invece, secondo l’ultimo censimento del 2015 il 99.7% della popolazione è armena mentre la popolazione azera è passata da 12.592 persone nel censimento del 1926 (10% della popolazione), a 40.688 nel 1989 subito dopo i movimenti del 13 febbraio 1988 e poco prima della disgregazione dell’Unione Sovietica (circa il 21.5% della popolazione) per poi registrare un drastico decremento contando nel censimento del 2005 soltanto 6 azeri. La religione predominante della Repubblcia di Artsakh è quella Armena Apostolica con la presenza di minoranze appartenenti alla Chiesa Evangelica e ad altre chiese ortodosse orientali.
Ashot Ghulyan, portavoce del Parlamento dell’Artsakh, ha ribadito l’importanza del 30° anniversario del movimento di indipendenza iniziato nel 1988 perché “all’epoca, quando tutto è iniziato, nessuno si sarebbe aspettato che il nostro popolo avrebbe potuto affrontare e superare i problemi legati all’indipendenza, al conflitto e le sfide future. Ciò che ereditiamo dal movimento dell’88 è l’importanza della libertà e l’opportunità di decidere per il nostro futuro come un paese indipendente oppure come parte dell’Armenia”. “Ho un’attitudine positiva ereditata dal 1988: – ha continuato Ghulyan – se guardo al futuro e penso a questi ultimi 30 anni posso soltanto prevedere che nei prossimi trentanni avremo la possibilità di festeggiare il 60° anniversario del movimento del Karabakh come paese indipendente oppure farlo da cittadini che vivono in una Armenia unita”. Armenia unita all’Artsakh, argomento attuale sia a Erevan che Stepanakert, a cui il portavoce del Parlamento del Nagorno Karabakh risponde dichiarando che “soltanto dopo che il nostro paese otterrà il riconoscimento internazionale, tale questione diverrà nazionale e gli armeni della Diaspora e quelli in Artsakh potranno decidere attraverso un referendum se il futuro del Nagorno Karabakh dovrà essere indipendente oppure con l’Armenia”.

Clima di positività verso il futuro del paese che contrasta però con le difficoltà del processo di sviluppo socio-economico dell’Artsakh come evidenziato spesso anche dall’Azerbaigian che vede nel ritorno del Nagorno Karabakh sotto la propria amministrazione come un’opportunità di crescita economica per la popolazione locale e nella fine delle ostilità con l’Armenia la possibiltià per il governo di Erevan di non essere più estromesso dalle dinamiche economiche regionali e dai benefici dati dal passaggio di gasdotti, oleodotti e vie di comunicazione dal Caspio all’Europa. Di opposte vedute invece Ghulyan che oltre ad evidenziare i risultati ottenuti negli ultimi 20 anni a seguito del conflitto, ha sottolineato come “il cessate il fuoco del 1994 ha permesso al nostro Governo di creare le condizioni minime di vita per il nostro popolo raggiunte nel 1998-2000. Dagli inizi del nuovo millennio abbiamo dato il via a diversi progetti economici grazie al grande contributo fornito dalla Diaspora armena che ha permesso di sviluppare il progetto sociale mirato a garantire l’erogazione dell’acqua a tutti i cittadini della Repubblica di Artsakh”.
Parlando della strategia di sviluppo economico il portavoce del Parlamento ha evidenziato tra i settori principali quello energetico che ha visto la costruzione di centrali idroelettriche con lo scopo di migliorare la fornitura energetica alla popolazione, quello dell’industria mineraria, l’agricoltura che fonda le proprie radici nella tradizione dell’Artsakh (il 90% dei prodotti agricoli sul mercato del Nagorno Karabakh è coltivato localmente) e che permette esportazioni all’Armenia, e il turismo, settore che offre ampi margini di miglioramento che necessita però maggiori investimenti.
Parlamento della Repubblcia di Artsakh che ha istituito gruppi di amicizia interparlamentari con Unione Europea, Lituania, Francia e Belgio e che “è pronto e volenteroso ad avere relazioni interparlamentari anche con l’Italia, paese che si è sempre contraddistinto per il suo ruolo nel processo di pace. Fino ad ora non abbiamo avuto contatti, ma imputo questo al tempo e non solo alla ‘politica del caviale’ i cui effetti negativi sono maggiori di quelli positivi per Baku, come constatato anche negli Stati Uniti, perché tale politica permette di sollevare l’interesse nei confronti dell’Artsakh”.
Il positivismo riscontrato nelle autorità e nelle persone dell’Artsakh contrasta però con il paesaggio che si vede viaggiando per il paese caratterizzato da piccoli villaggi o città che visivamente mancano di strutture moderne e avanzate. Fa eccezione a questa realtà il TUMO Center for Creative Technologies presente a Stepanakert (ma anche a Gyumri e Erevan), un centro dedicato agli adolescenti dai 12 ai 18 anni che eroga corsi di formazione gratuiti specializzati in animazione, sviluppo dei giochi, web development e digital media il cui fine è quello di offrire maggiori possibilità alle nuove generazioni dell’Artsakh. Una esperienza positiva sorta a Erevan e diffusa anche nella Repubblica di Artsakh grazie ai fondi erogati dalla Diaspora armena che dovrebbe essere esportata anche a Parigi e Mosca nel breve futuro i cui benefici vengono però attenuati o vanificati per quel che concerne la popolazione giovane maschile dall’obbligo di leva che vede i giovani dell’Artsakh spendere almeno due anni di servizio militare e rischiare la propria vita al fronte.
La Repubblica di Artsakh e la sua popolazione meritano di vivere nella pace il cui raggiungimento sembra oramai lontano: Svante Cornell in “Small Nation and Great Powers: A Study of Ethnopolitical Conflict in the Caucasus” nota giustamente come la soluzione finale al conflitto dipende dall’evoluzione delle posizioni delle parti interessate e dalle pressioni interne e internazionali sui negoziatori. Un possibile accordo che tenga conto del diritto di autodeterminazione degli armeni dell’Artsakh e della preservazione della integrità territoriale dell’Azerbaigian è fondamentale: seguendo questo concetto secondo Cornel è necessaria una negoziazione dell’autonomia del Nagorno-Karabakh ad esempio seguendo il modello di “stato associato” della Repubblica del Tatarstan nella Federazione Russa. Il ritorno dei rifugiati azeri e armeni è un altro elemento cruciale a cui devono seguire il controllo internazionale in una fase di transizione dei territori di Shushi, Lachin e Shaumianovsk/Agdere in modo da favorire sia la connessione tra Armenia e Artsakh che quella tra Azerbaigian e Nakhchivan. Il tutto deve essere unito a una speciale attenzione per la dimensione economica del conflitto che dovrebbe portare alla istituzione di una free-trade zone che incorpori Armenia, Artsakh, Georgia, Ossezia del Sud, Abkhazia formando quindi un’area di libero scambio caucasica meridionale che possa ridurre nel lungo termine l’importanza dei confini e della sovranità statale e le tensioni ponendo sull’ago della bilancia lo sviluppo economico e condizioni di vita migliori. Questa idea però si scontra con la realtà che vede entrambe le parti fisse sulle proprie posizioni: anche in Artsakh la popolazione locale “non vuole cedere il territorio conquistato durante il conflitto con l’Azerbaigian” e, secondo quanto espresso anche dai molti veterani di guerra che hanno sfilato nella manifestazione del 13 febbraio, “le possibilità di vivere nello stesso territorio tra armeni e azeri sembrano oramai impossibili. Possiamo commerciare con loro, avere contatti per quel che concerne la diplomazia, ma una coabitazione come nel periodo sovietico e quindi un ritorno dei rifugiati è quanto di più impensabile”.
Ma senza speranza di una pace e senza la volontà di negoziare, e quindi di cedere qualcosa in cambio di altro, il conflitto è sempre pronto a esplodere e le future generazioni verranno sacrificate in una guerra che oltre a logorare i cittadini sia armeni che azeri, provocando rifugiati da entrambe le parti, non fa altro che aumentare i sentimenti di odio e diffidenza.

 

 

Fonte: Il Caffé geopolitico, 22 novembre 17,  di Luttine Ilenia Buioni

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Quale formula negoziale potrà porre fine al conflitto del Nagorno-Karabakh? E come attribuire all’Artsakh dignità di Stato riconosciuto? Se la riapertura del dialogo tra Armenia e Azerbaijan è foriera di sviluppi positivi ma non immediati, la Corte di Strasburgo si prepara invece a compiere i primi passi verso la qualificazione giuridica di uno dei tanti tasselli di instabilità post-sovietica

UN VOLTO NUOVO, MA SOLO A METÀ

Nuova forma di Governo, medesimo leader. Il 7 settembre 2017 ha segnato il varo del terzo mandato consecutivo di Bako Sahakyan, Presidente dell’enclave armena del Nagorno Karabakh in Azerbaijan, repubblica de facto indipendente dal 1991 costantemente presidiata da truppe armene.
Dopo gli emendamenti costituzionali approvati mediante referendum lo scorso febbraio, Sahakyan si riconferma dunque titolare di un mandato ad interim, fino a quando Stepanakert avrà completato, nel 2020, la transizione da un sistema semi-presidenziale ad una forma di Governo presidenziale.
E il fatto che fra tre anni si terranno sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari appare una coincidenza non proprio casuale. Che si tratti di una manovra politica ad hoc per prorogare i poteri di Sahakyan? È questa un’ipotesi teorizzata da alcuni analisti, mentre gli estimatori della nuova veste presidenziale del Karabakh ritengono che la riforma costituzionale sia funzionale in particolare ad una più adeguata gestione del conflitto con l’Azerbaijan. Un conflitto congelato, per così dire, dopo la firma del Protocollo di Biškek nel 1994, ma soggetto ancora a sporadiche recrudescenze, quale ad esempio la Guerra dei Quattro Giorni nell’aprile 2016.
Il 16 ottobre scorso si è svolto a Ginevra un meeting tra i co-Presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE e i rispettivi Presidenti di Armenia e Azerbaijan, seguito da un colloquio privato tra questi ultimi.
E mentre in questi giorni si riflette sulla scelta di una data condivisa per il prossimo incontro, ci si interroga sullo stato di avanzamento dei negoziati e sulle implicazioni di un’eventuale composizione pacifica della questione armeno-azera.

ARTSAKH, LA REPUBBLICA CHE NON ESISTE

I concetti di sovranità statale, integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli sono da sempre fonte di complessità irrisolte e di fragili iniziative di pace rimaste inattuate. Basti citare il frastagliato laboratorio geopolitico che si estende dalla Transnistria al Nagorno-Karabakh, attraverso l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud.
Nel caso specifico del Nagorno Karabakh, la chiave dell’instabilità riposa in quel dono azzardato fatto da Stalin all’Azerbaijan nel lontano 1923, quando alla repubblica sovietica guidata da Baku era stata regalata la regione dell’Artsakh (oggi più nota come Nagorno Karabakh), etnicamente e culturalmente armena, oltreché sorretta da aspirazioni politico-ideologiche assai distanti da quelle del Governo azero.
E quando, nella fase terminale dell’URSS, la sovranità sull’oblast del Karabakh venne riconfermata a favore di Baku, a ribaltare la decisione intervenne il referendum secessionista del 1992, nel quale oltre l’80% dell’elettorato della regione si pronunciò per l’indipendenza. Poi, l’invasione militare delle truppe azere e il varo della politica belligerante che continua a contrapporre Baku a Yerevan, paladina dei diritti della maggioranza armena del Karabakh.
Nel frattempo, i Protocolli di Alma-Ata del 21 dicembre 1991 avevano sancito la dissoluzione dell’URSS e l’istituzione dalla Comunità degli Stati Indipendenti (CIS): Armenia e Azerbaijan ottennero finalmente la dignità di Stati indipendenti. Mentre per il Nagorno-Karabakh l’indipendenza de jure non arrivò mai.
Ed effettivamente, di fronte a fenomeni di mutamenti territoriali, la prassi internazionale sembra orientarsi verso la tutela preferenziale dell’integrità statale, più che delle istanze secessioniste.
Ciò premesso, non deve però passare inosservato che la Convenzione di Montevideo del 1933 sui diritti e doveri degli Stati subordina l’assunzione della personalità giuridica internazionale alla sussistenza di quattro requisiti: una popolazione permanente, un territorio definito, un governo e la capacita di intrattenere relazioni con altri Stati. Ma, soprattutto, l’articolo 3 della Convenzione sgancia il concetto di esistenza politica dello Stato dal riconoscimento, in quanto «anche prima del riconoscimento lo Stato ha il diritto di difendere la propria integrità e indipendenza, di legiferare sui suoi interessi, di gestire i propri servizi e di definire la competenza dei suoi tribunali». Detto in altri termini, dal riconoscimento dipende esclusivamente l’accettazione (e non l’esistenza) della personalità di uno Stato, con tutti i diritti e i doveri determinati dal diritto internazionale (cfr. Art. 6 Conv).

UN NUOVO MODELLO DI DIALOGO O VECCHIE RIVENDICAZIONI?

In linea teorica, le relazioni politiche privilegiate che l’Armenia intrattiene con la Russia e la sua membership all’interno del blocco militare dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) potrebbero attribuire a Mosca un ruolo chiave nei negoziati di pace.
In realtà, l’incremento dell’export militare russo verso l’Azerbaijan e il timore che il gigante eurasiatico possa in futuro parteggiare per il vicino azero sembrano ultimamente guidare Yerevan verso l’instaurazione di nuovi partenariati. E difatti, sebbene fonti ufficiali abbiano prontamente riconfermato la centralità del sodalizio con il Cremlino, alcuni segnali indicano inequivocabilmente che la tradizionale politica filo-russa comincia a vacillare. Non si spiegherebbe diversamente la partecipazione delle forze armene alle recenti esercitazioni della NATO, così come l’intenzione di ampliare la cornice di cooperazione militare con la Grecia, la Cina ed il Canada. Peraltro, in seno all’Assemblea Nazionale iniziano a levarsi voci di dissenso anche nei confronti dell’appartenenza all’Unione Economica Eurasiatica (EEU) capeggiata da Mosca.
Ma la novità maggiormente significativa è senz’altro rappresentata dalla volontà del Presidente Sargsyan di rinsaldare la partnership con l’Unione Europea, che sarà presto suggellata dalla firma dell’Accordo Rafforzato di Partenariato e Cooperazione (CEPA), in programma per il prossimo 24 novembre.
Per altro, non solo a Ginevra, ma ancor prima a margine della sessione autunnale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Sargsyan aveva ribadito il proprio sostegno al riavvio dei negoziati per la sicurezza dell’Artsakh, adottando una posizione pienamente concorde con le esortazioni del Gruppo di Minsk dell’OSCE, i cui osservatori hanno condotto, tra il 25 ottobre e l’8 novembre, due missioni di monitoraggio lungo la Linea di Contatto fra Azerbaijan e Karabakh.
Anche se, dopo quasi 25 anni di esistenza del Gruppo di Minsk e di mancata implementazione delle quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedevano il ritiro delle forze armene dai territori occupati, è lecito chiedersi come e quando potrà realizzarsi un equilibrio tra le ragioni delle parti in conflitto, soprattutto ove si consideri che il Presidente del Karabakh Sahakyan non è stato finora invitato al tavolo negoziale. Yerevan potrà mai scalfire le proprie convinzioni e riconoscere la sovranità dell’Azerbaijan? E Baku sarà eventualmente in grado di preservare l’identità etnica e il patrimonio culturale dell’Artsakh?

IL BILANCIO IN CHIAROSCURO DEGLI SFORZI DIPLOMATICI

Ragionando in termini generali, l’assenza di riconoscimento internazionale dello Stato autoproclamatosi indipendente deve porsi in relazione alle modalità attraverso le quali è maturata la separazione, frequentemente accompagnata dal dissenso dell’entità statale originaria e dal ricorso all’uso della forza. Pertanto, l’applicabilità del principio di autodeterminazione dei popoli non potrebbe assurgere ad unica bussola delle rivendicazioni degli Stati non riconosciuti se non fosse sorretta da argomentazioni specifiche. Argomentazioni che il Nagorno-Karabakh ha sempre identificato nelle discriminazioni (presumibilmente) condotte dalle autorità azere ai danni della popolazione locale.
Malgrado i colloqui intervenuti a New York tra i Ministri degli Esteri di Armenia ed Azerbaijan e le speranze accese dall’appuntamento ginevrino, i principali analisti internazionali dello spazio post-sovietico sembrano ritenere a tutt’oggi debole la prospettiva di una prossima normalizzazione delle relazioni armeno-azere. E ciò non solo per effetto delle posizioni inconciliabili risorte all’esito della Guerra dei Quattro Giorni, ma anche a causa della arrendevolezza mostrata in svariate occasioni dal triangolo negoziale del Gruppo di Minsk e delle ambiguità che caratterizzano le azioni diplomatiche per risolvere il conflitto.
Anzitutto la Russia ha tentato di riportare in auge il cosiddetto Piano Lavrov, formula che implicherebbe la riconsegna all’Azerbaijan di alcuni distretti circondanti il Karabakh: una proposta che l’Armenia avrebbe eventualmente accettato prima dell’aprile 2016 e che poi venne respinta in toto dal Presidente Sargsyan. In secondo luogo, si ricordi che in maggio-giugno 2016 i Presidenti di Armenia, Azerbaijan e Russia si riunirono prima a Vienna e poi a San Pietroburgo per discutere dell’implementazione di un meccanismo investigativo dell’OSCE contro l’escalation di nuove violenze… Ma cosa rimane oggi di quelle dichiarazioni? E in ultima analisi, come accennato poc’anzi, per affrontare il riavvio dei negoziati in chiave propositiva e costruttiva, non sembra sufficiente il coinvolgimento di Yerevan e di Baku, ma occorre invitare al dialogo anche Stepanakert.

QUESTIONI GIURIDICHE, PRIMA CHE POLITICHE

Oltre alla prospettiva di un ritiro delle truppe armene dai distretti che circondano la Repubblica dell’Artsakh (ipotesi prima accennata e poi ritrattata dal Ministro degli Esteri armeno Nalbandian e comunque esclusa a priori dal Presidente Sahakyan), una novità di tutto rilievo proviene invece da Strasburgo.
Il rappresentante dell’Armenia presso la Corte Europea dei Diritti dell’UomoGevorg Kostanyan, ha infatti riferito che i giudici di Strasburgo sarebbero prossimi ad esaminare una serie di casi che attengono direttamente o indirettamente allo status legale dell’Artsakh. A differenza, cioè, di quanto frequentemente accaduto in passato, la questione verrebbe per la prima volta affrontata dal punto di vista giuridico e non più esclusivamente politico.
Tuttavia, anche qualora la Corte EDU decidesse di muoversi realmente in tale direzione, un primo fattore di incertezza sarebbe determinato dalla posizione che assumerebbero, in particolare, i giudici di Azerbaijan e Turchia. Mentre un secondo aspetto problematico riguarderebbe i corollari a livello politico dell’ipotetico riconoscimento giuridico del Nagorno-Karabakh.
In ogni caso, qualunque sia l’evoluzione del processo di riconoscimento, un primo punto saldo è offerto dal fatto che le pronunce della Corte sono necessariamente soggette ad implementazione da parte del Comitato dei Ministri, ossia l’organo politico custode dei valori fondamentali del Consiglio d’Europa, composto cioè dai Ministri degli Esteri di tutti gli Stati membri o dai loro rappresentanti permanenti a Strasburgo.
All’opposto, il passo successivo rappresenterà invece il vero banco di prova della traiettoria che la comunità internazionale deciderà di intraprendere.

 

 

Fonte: Tempi.it, 20 settembre 17,  di Vittorio Robiati Bendaud

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Viaggio in Nagorno Karabakh, dove tra antiche chiese e monasteri sventrati vive una comunità nobile e gloriosa, orgogliosa della propria identità

Un viaggio in Armenia e Artsakh (ossia l’odierna Repubblica Armena del Nagorno Karabakh), in compagnia di Antonia Arslan. Per chi come me da anni nutre simpatia, vicinanza e profondo apprezzamento per il popolo armeno e la sua causa, si è trattato di un’occasione unica, sognata e realizzatasi. Con questo viaggio sono ipso facto divenuto persona sgradita in Turchia e Azerbaigian… pazienza. Il mio rammarico è per i due popoli, quello turco e quello azero, che meriterebbero dirigenze politiche ben diverse dalle attuali. È doveroso però ricordare che esistono, in seno al popolo turco e al popolo azero, scrittori, pensatori religiosi e laici, persone comuni, che dissentono dalle leadership governative e religiose dei due Stati e che, in relazione agli armeni, caldeggiano riflessioni nuove, ripensamenti del passato e del presente, strategie più rosee per il futuro.

Desidero premettere un interrogativo amaro, che mi accompagna da tempo e da cui non riesco a liberarmi. Con l’avvento dell’islam e le sue iniziali enormi conquiste, gran parte dei territori del Vicino Medio Oriente e del Nord Africa da cristiani divennero musulmani. Parimenti accadde nei territori bizantini e armeni dell’Asia Minore, dell’Anatolia e del Caucaso. Se è vero che questi cristianesimi orientali, al pari dell’ebraismo, coesistettero con l’islam governante e imperante, è pur vero che l’ebraismo e i cristianesimi orientali sopravvissero all’islamizzazione e al Dar al-Islam. I musulmani conquistarono anticamente quei territori, ma furono minoranze conquistatrici a fronte di ampie maggioranze cristiane conquistate. La domanda che si impone è: come fu possibile che migliaia di questi cristiani (e, in misura minore, ebrei) in pochi secoli si siano convertiti all’islam liberamente, abbracciando la fede dei conquistatori?

Probabilmente la risposta risiede, come molti studiosi indicano, nel sistema perverso di protezione e contemporanea umiliazione/svilimento della Dhimma, che permetteva ai cristiani e agli ebrei di risiedere in territori islamizzati. La Dhimma e le sue conseguenze rendevano allettante per molti la conversione all’islam, per stare finalmente tranquilli, per fugare discriminazioni, per esasperazione. È un dato di fatto che dove l’islam è giunto il cristianesimo è fortemente regredito. Armeni, ebrei e cristiani assiri, pur a fronte di perdite di centinaia di migliaia di loro fratelli, alcuni dei quali trasformatisi drammaticamente poi in delatori e persecutori, hanno “retto” meglio di altri. Fu molto più difficile cioè ottenere la loro conversione. Andare in Armenia e in Artsakh, come andare in Israele, per me è significato andare nella terra di chi, a costi immensi, è persistito nella propria identità. In questo caso, la più antica nazione cristiana del mondo.

Da europeo, credo altresì che siano vere le parole che ho udito personalmente da Bako Sahakhyan, il presidente dell’Artsakh: quel confine armeno è l’estremo confine attuale dell’Occidente. E io aggiungo, con convinzione, “con Israele”. Tuttavia, nella coscienza comune europea, se è già purtroppo complicata una riflessione simile in relazione ad Israele, la nescienza diviene assordante e colpevole per quanto riguarda le vicende armene. Vedere chiese e monasteri, per lo più di antichissima fondazione e di raro incanto, sventrati; steli religiose (khatchkar) infrante deliberatamente a decine di migliaia; villaggi rurali di contadini bombardati per cancellare la presenza armena e la sua storia è un fatto che perdura da decenni. Palmira, cioè, non è per nulla un fatto nuovo, un inedito. Questa è una lezione intrisa di sangue che le pietre di Armenia urlano a noi occidentali, una lezione che molti di noi disprezzano, perché non la conoscono e non vogliono conoscerla, e perché turba le loro delicate menti “cosmopolite”. È verissimo che al genocidio è seguito il genocidio culturale, che è stato perpetrato impunemente, nel silenzio dell’Occidente, per decenni. Innumerevoli paesini montani del Nagorno Karabakh testimoniano per il visitatore tutto questo, paesini che rivedono oggi gli eredi del popolo che abitò e fecondò per secoli e millenni questa terra. Un popolo di contadini ingegnosi e dignitosi, di mercanti e di monaci, di architetti e sognatori, di poeti e di raffinate copiste (sì, al femminile, come fu per la giovane Gayané) di Bibbie e codici. La distruzione del bello e delle vestigia antiche in certe parti del mondo non è solo un orrore bellico, è una strategia inveterata. L’Isis ha copiato stilemi ben più vecchi, ancor più vecchi delle distruzioni che sto ora raccontando.

Un popolo solare
Eppure il governo dell’Artsakh, piccola enclave di tenaci resistenti armeni, non abbatte le moschee presenti, ma le fa restaurare. Anche per evidenziare agli osservatori internazionali una sostanziale differenza rispetto alle forze nemiche. E così accade per i molti cimiteri islamici, che non vengono rimossi e i morti lasciati al loro riposo. È chiaro che la frontiera che ho visitato è una frontiera in guerra, calda. Ed il popolo armeno lì residente è ben armato e militarizzato (due anni di servizio militare obbligatori, da poco facoltativo anche per le ragazze). E ho conosciuto l’arcivescovo Pargev Martirosyan, un eroe nazionale: un arcivescovo letteralmente in trincea e combattente per il suo popolo, non solo con le armi della preghiera. Alla domanda se Sua Eccellenza fosse sul fronte durante la terribile guerra, la risposta è immediata: «Si capisce. Dove altro avrei dovuto essere? Il vescovo è un padre per i figli e per i nipoti. Dovevo stare con i miei familiari e difendere la mia gente».

Ma se il confine è caldo e le armi realtà tristemente ben nota, è altrettanto vero che questo è un popolo solare, che ama mangiare il proprio pane e bere il proprio vino. E brindare, molte volte brindare. Con gli armeni, come con gli ebrei, i vicini hanno invalidato e capovolto drammaticamente la profezia di Isaia per cui le lance si sarebbero mutate in falci. E però questo è un popolo di giovani che si sposano e fanno bambini, tanti bambini. E che vogliono il meglio per i loro figli, il che significa per gli armeni: cultura, cristianesimo e ospedali.

Scuole, asili, case per soldati
Una lezione di vita me l’hanno data i miei compagni di viaggio armeni della diaspora, per lo più americani, promotori di iniziative di solidarietà per l’Artsakh legate alla Fondazione Tufenkian. Persone colte, stimati professionisti, donne e uomini estremamente affabili con la volontà inesausta di beneficare il proprio popolo, di investire in se stessi. Un’attenzione delicata e materna, pacifica e nobile, per scuole, asili, case per giovani soldati feriti, centri medici, aiuti per l’agricoltura locale. E infine non posso non pensare, in chiusura, a un’amica cara, ossia alla nostra Antonia Arslan. Noi italiani abbiamo in mente l’autrice italo-armena della Masseria delle Allodole e di altri scritti. Solo pochi hanno capito che l’autrice della Masseria rappresenterà per la letteratura italiana e la sua storia ciò che rappresentò Se questo è un uomo di Primo Levi, ossia un fondamentale, nuovo tassello. Ma comprendo anche i silenzi dei critici, immersi nel mare di scribacchini starnazzanti nostrani.

Quello che ho visto in Armenia e in Artsakh è però molto di più. Ho visto giovani donne fermarsi per capire se era lei o non era lei. Ragazze commuoversi, vecchie tremare. Bambini farle festa e decorati militari mettersi sull’attenti. Antonia, con Charles Aznavour, è la voce e la bandiera di un popolo antico, nobile e glorioso, sofferente e risorto, combattivo e ospitale. Antonia è per questa gente ciò che Elie Wiesel è stato per gli ebrei. Ed è segno che c’è ancora speranza, forza, coraggio e senso nella letteratura.

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Fonte: Lettera 43, 7 settembre,  di Alessandro da Rold e Luca Rinaldi

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Si torna a indagare sulla gigantesca rete di riciclaggio continentale. Un giro da 20 miliardi di dollari. Coinvolta anche l’Italia sull’accordo per il gasdotto Tap. Come funziona la «diplomazia al caviale».

In Europa si torna a parlare del gas azero e di quell’immenso giro di denaro che tra il gennaio e l’ottobre 2014 ha messo in moto una rete di riciclaggio da 20 miliardi di dollari passati per 19 banche russe e finiti sui conti di oltre 5 mila società domiciliati in 732 banche dislocate in 96 Paesi nel mondo.

PRODOTTI 3 MILIARDI IN TRE ANNI. È uno schema che la Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp) ha ribattezzato come «Lavatrice russa». Fa parte del “gioco” la lavatrice azera, che ha prodotto in tre anni circa 3 miliardi di dollari. La segnalazione è arrivata in questo senso per prima dalla Danske Bank, la banca danese che ha registrato movimenti anomali nella filiale estone che riportavano direttamente al governo e alla classe dirigente di Baku. Ma sono stati una serie di documenti in possesso del giornale danese Berlingske e condivisi con la stessa Occrp che ha svelato la possibile presenza dei notabili azeri nello schema.

«I soldi erano indirizzati a politici, giornalisti e personalità influenti con l’obiettivo di adottare una linea morbida nei confronti del presidente azero Ilham Aliyev»

Uno dei passaggi “preferiti” della lavatrice azera è il Regno Unito. Qui sarebbero transitati 16 mila pagamenti riservati da parte della classe dirigente azera, col placet del governo di Baku. Denari destinati a una rete di politici, giornalisti e personalità influenti con l’obiettivo di adottare una linea morbida nei confronti del presidente Ilham Aliyev in un momento in cui il lo stesso si è trovato a fronteggiare un mare di critiche per l’arresto di attivisti per i diritti umani e giornalisti.

DI MEZZO I CONTESTATI GASDOTTI. Insomma, quella che viene chiamata «diplomazia al caviale», o «caviar diplomacy». Buona pure per favorire gli interessi economici della classe dirigente azera, tra cui leggere alla voce Trans Adriatic Pipeline, meglio nota come Tap, ovvero il metanodotto da 871 chilometri che collegherà l’Azerbaijan con l’Europa approdando nel Salento. Di mezzo anche il contestato metanodotto Snam Rete Gas, che porterà il gas della Tap nella rete di distribuzione nazionale e seguirà un percorso di 55 chilometri e 90 metri, da Melendugno a Brindisi.

Nel giugno 2014 non sfuggì agli osservatori più attenti l’incontro romano tra il presidente azero Aliyev e l’allora premier Matteo Renzi. Negli stessi giorni faceva il suo ingresso come lobbista di British Petroleum, parte integrante del consorzio che realizzerà le opera per la Tap, l’ex premier britannico Tony Blair. Pochi mesi dopo, a novembre, il pranzo tra Blair e Renzi in cui il primo avrebbe dato indicazioni al secondo sulla «via della sinistra italiana». E forse anche sul Tap.

SOLDI DALLA FONDAZIONE A ROMA. Ma la diplomazia al caviale in Italia si è manifestata, a proposito di fondazioni, pure con i denari della fondazione Aliyev quando l’allora sindaco Gianni Alemanno e l’ambasciatore azero a Roma Vaqif Sadiqov firmarono un documento per destinare 110 mila euro in arrivo dalla stessa fondazione al restauro della Sala dei Filosofi di Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini. Obiettivo «rafforzare i rapporti di collaborazione» già avviati nel campo della cultura con l’arrivo del monumento al poeta Nizami Ganjavi (definito «poeta azerbaigiano», in realtà nato in Persia due secoli prima della fondazione dello Stato azero) a Villa Borghese.

Nel frattempo anche la procura di Milano potrebbe riservare sorprese nei prossimi mesi. Alla fine di luglio infatti la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della procura diretta da Francesco Greco, esperto di reati finanziari, contro il proscioglimento nel 2014 del parlamentare dell’Udc Luca Volontè, accusato di aver ricevuto da politici azeri una tangente da 2 milioni 390 mila euro per orientare il suo voto come membro dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa in favore del governo dell’Azerbaijan.

TRANSAZIONI IN SOCIETÀ OFFSHORE. I soldi, come ha verificato la Guardia di finanza dopo una segnalazione della Bcc di Barlassina, erano transitati sulla società italiana Lgv, intestata alla moglie di Volontè, e alla sua fondazione politica, Novae Terrae. I soldi sarebbero passati su società offshore in Estonia e Lettonia.

Per i pm Elio Ramondini e Adriano Scudieri il parlamentare dell’Udc avrebbe sfruttato il suo ruolo di capogruppo dei popolari europei per convincere altri parlamentari a votare contro contro il rapporto Strassaer sulle condizioni degli 85 prigionieri politici nella repubblica caucasica. Un favore al governo azero.

CASSAZIONE CONTO LA DECISIONE DEL GUP. Per la Cassazione la decisione del gup, che aveva deciso di archiviare «perché inutile la celebrazione del dibattimento», era sbagliata. «L’immunità prevista dall’articolo 68 primo comma della Costituzione (“i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e di voti dati nell’esercizio”) non preclude la perseguibilità del reato di corruzione per esercizio della funzione in relazione all’attività del membro del parlamento».

LA PROCURA PUÒ RIAPRIRE L’INDAGINE. Per la Cassazione, infatti, come riporta anche il Fatto Quotidiano, «il gup di Milano, nel decretare il non luogo a procedere, non ha fatto alcuna valutazione sulla sostenibilità in dibattimento dell’accusa, ma si è limitato ad elevare erroneamente l’insindacabilità delle condotte ascritte all’imputato e quindi l’operatività della clausola di immunità». Gli atti sono stati di nuovo inviati alla procura che ora può riaprire l’indagine. E chissà che non vengano fatti altri approfondimenti sulla gigantesca “lavatrice azera” e sulla diplomazia al caviale che avrebbe corrotto politici in tutta Europa.

Fonte: Tempi.it, 8 agosto,  di Averi Kaczka

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Secondo di una serie di articoli (il primo reportage lo trovate qui)

Nelle persone dal carattere forte l’eccezionale forza d’animo e la virtù derivano da un pesante onere e dalle difficoltà. Vale a dire, non sono sole le circostanze che un individuo affronta a formare la persona, ma quali azioni quella persona intraprende in risposta alle circostanze. Frankling D. Roosevelt, nonostante la paralisi dovuta alla poliomielite, divenne presidente degli Stati Uniti d’America e guidò il suo paese attraverso la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale. Se non si cerca di superare le sfide che la vita presenta, allora non è possibile ottenere ciò che appare impossibile. Se Roosevelt si fosse arreso alla poliomielite e si fosse lasciato consumare, non avrebbe compiuto le sue imprese. Invece di considerare la sua condizione come un semplice peso, un’ingiustizia del fato contro di lui, Roosevelt cercò di scavalcarla. Questo esempio serve a dimostrare che le difficoltà non dovrebbero essere considerate come un peso, ma come una sfida essenziale per lo sviluppo e il progresso.

Questo è il caso della gente di Artsakh: nonostante una dura storia di avversità, dalle atrocità del genocidio armeno all’occupazione sovietica, i conflitti con Turchia e Azerbaigian e l’attuale lotta per il riconoscimento della sua indipendenza, la gente di Artsakh è rimasta salda e unita. Terra di armeni formalmente distinta dall’Armenia, la Repubblica di Artsakh è un paese indipendente di circa 150 mila persone che cercano di superare il loro passato pieno di difficoltà e di svilupparsi come paese forte. In tutto il paese ci sono chiari e distinti indizi della storia di conflitti e battaglie che la popolazione ha affrontato. Tuttavia sono stati compiuti anche notevoli sforzi per superare questi conflitti.

Abbondano gli edifici in rovina, in particolare nella storica ex capitale Shushi, e i progetti di restauro sono costantemente in corso in tutto il paese, nel tentativo da parte degli abitanti di Artsakh di risanare la loro eredità culturale. L’inflazione e i salari bassi rendono il costo della vita alto, ma la generosità e gentilezza sono ancora una prassi comune tra la gente, persino (e soprattutto) verso quegli stranieri che vanno a trovarli. Alcune persone di Artsakh si sentono più a loro agio parlando russo anziché armeno, risultato dell’influenza sovietica, ma i giovani parlano entrambe le lingue e adottano rapidamente l’inglese come terza lingua. Questa inclusione dell’inglese all’interno della popolazione consente loro di avere una voce anche in Occidente.

Queste difficoltà non scoraggiano la gente di Artsakh, che anzi prendono le misure necessarie per superare gli ostacoli al fine di rafforzare il loro popolo e il proprio paese. L’anno scorso l’Artsakh stava affrontando un’escalation nel conflitto con l’Azerbaigian, ma la gente ora trae orgoglio dal Memoriale in ricordo della difesa di Shushi e dedica il terzo brindisi di ogni festa in onore dei propri soldati. Gli abitanti di Artsakh sono militari per necessità, ma non ne vengono toccati nel cuore. Cercano semplicemente di vivere una buona vita e di essere se stessi, di attenersi alle loro tradizioni e di difendere la propria identità così come la loro esistenza. Non sono solo le avversità che la gente di Artsakh affronta a definirli, ma anche i valori che custodiscono. Il simbolo nazionale di Artsakh, intitolato Meno enk mer lerner, “Siamo le nostre montagne”, esprime il profondo legame della gente di Artsakh con la loro terra e le loro tradizioni. Come le montagne, il popolo di Artsakh possiede una forza insormontabile. Non permettono che le difficoltà impediscano loro di prosperare, ma cercano di fare ciò che è buono e difficile perché è giusto e gratificante.

Nell’Occidente contemporaneo, e in particolare negli Stati Uniti, l’atteggiamento e l’approccio verso le difficoltà sono scivolati nella paralisi. Invece di affrontare le sfide che si incontrano, gli americani sono arrivati a credere che molte sfide della vita sono ostacoli da respingere perché ci si trova nel torto. La storia degli Stati Uniti non è mai stata facile, ma il paese ha prosperato perché la sua popolazione ha cercato l’eccellenza perseguendo il bene in senso aristotelico: l’aspirazione degli Stati Uniti è sempre stata quella di incarnare l’eccellenza. La storia del paese è piena di persone eccezionali come Roosevelt che hanno superato le avversità, a cominciare dall’esempio dei Padri Fondatori. In meno di due secoli gli Stati Uniti si sono trasformati da un paese appena divenuto indipendente alla più grande superpotenza mondiale.

Il raggiungimento del potere non si ottiene senza difficoltà e conflitti, né la storia degli Stati Uniti è stata senza macchie. Il coraggio degli americani nell’affrontare le avversità e la loro “caccia all’eccellenza” sono esemplari. Ma a causa dei loro errori e dei loro crimini sanguinosi, molti americani hanno sviluppato disprezzo e disapprovazione per gli Stati Uniti e la loro storia. C’è una grande paura e un profondo risentimento in molti americani disillusi che credono che il sogno americano sia fallito e che il loro paese abbia perso la forza. Hanno però dimenticato che sono le difficoltà e la determinazione – e non la facilità e il successo – a caratterizzare il sogno americano.

Come la storia dell’ascesa degli Stati Uniti è segnata dalle lotte, così anche lo sforzo del singolo cittadino americano verso il successo è una questione di avversità. Per gli americani è importante ricordare che la Dichiarazione di indipendenza promette ai cittadini il diritto di perseguire la felicità: questa promessa autorizza ciascuno a perseguire non una felicità svincolata, ma tutte le difficoltà che si accompagnano alla ricerca dell’eccellenza. Se uno fosse all’altezza della sfida, allora la felicità sarebbe alla sua portata. Non è la grandezza che l’America promette al suo popolo, ma la possibilità di raggiungere la grandezza. Lo stress, i conflitti e le sfide sono requisiti necessari allo sviluppo: sono colline da salire così che ciascuno possa raggiungere le proprie aspirazioni.

Eppure i giorni in cui le persone intraprendevano iniziative in America hanno ceduto il passo a esibizioni di diritti e apatia. Sebbene il fatto stesso di essere un cittadino americano sia un privilegio, ogni cosa che infrange il proprio comfort viene considerata un’ingiustizia. Quando si incontra una difficoltà la risposta standard è quella di condannarla come ingiustizia. Ora che le persone stanno diventando sempre più riluttanti ad afferrare un’occasione e fare ciò che è necessario, l’eccellenza per la quale l’America si è battuta scivola via.

Soprattutto ora in questi tempi di grande incertezza e dubbio, e ora che la prosperità e il potere degli Stati Uniti vacillano, è importante che gli americani non abbandonino la ricerca dell’eccellenza. Come la gente di Artsakh, devono affrontare di petto le avversità e, ancora una volta, fare ciò che è necessario per superare le sfide che si incontrano. Condannare completamente gli Stati Uniti per i suoi difetti equivale a ignorare gli enormi sforzi di un popolo che ha tentato di migliorare il mondo. Non è stato un compito portato a termine facilmente, ma in due secoli gli Stati Uniti hanno contribuito in larga parte al benessere del mondo. Essere un patriottico americano non significa esentare il proprio paese dalla colpa, ma riconoscere, sostenere e incarnare gli ideali sui cui l’America è fondata: quelli di libertà e indipendenza. E soprattutto significa rispettare la coraggiosa ricerca intrinseca a questi valori, la ricerca della verità e del bene.

 

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Fonte: Formiche.net, 12 luglio di Francesco De Palo

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Cosa si cela dietro le accuse all’Armenia di molti parlamentari italiani filo-Baku? Secondo il Ministero della Difesa della Repubblica dell’Azerbaijian lo scorso 4 luglio le forze armate dell’Armenia hanno colpito il villaggio di Alkhanli con mortai da 82 e 120 mm e lanciagranate pesanti. Il bilancio parla di una donna e una bambina morte.

Alcuni parlamentari italiani, tra cui il deputato piddino Khalid Chaouki, il senatore trentino della Lega Nord Sergio Divina e il senatore del M5S Vito Petrocelli, hanno accusato l’Armenia di “atti di vandalismo”, ma nessuno ha fatto cenno al fatto che nelle ultime settimane l’Azerbaijian ha continuato a violare gli accordi di cessate il fuoco trilaterale del 1994-1995. Cosa si cela dietro le dichiarazioni di fuoco contro Erevan? C’è il rischio che una serie di vicissitudini politiche fra due Paesi possano essere strumentalizzate dietro il peso di altri ben più consistenti interessi geopolitici?

Esiste una lobby della comunicazione che dà più peso specifico ad un fatto piuttosto che ad un altro? Risponde al vero il fatto che l’Armenia sta conducendo attacchi sistematici, deliberati e mirati alla popolazione civile come sottolineato da Hikmat Hajiyev, portavoce del Ministero degli Affari Esteri dell’Azerbaijian?

A fronte delle numerose analisi che pendevano oggettivamente dalla parte di Baku, è utile affrontare il nodo anche dall’altro punto di vista e provare a decifrare fatti e premesse. Il recente incidente nel villaggio di Azhariana di Alkhanli può essere considerato come risposta ad una provocazione azera?

“Prima di fare dichiarazioni, ognuno dovrebbe esplorare i fatti in modo completo, anziché rendere commenti ufficiali dell’Azerbaigian che sono così lontani dalla realtà” racconta Victoria Bagdassarian, Ambasciatrice armena in Italia, secondo cui il partito armeno non agisce mai come iniziatore dell’attacco, “ma sempre pronto se necessario e quando è costretto a prendere misure di ritorsione per calmare qualsiasi azione provocatoria dell’Azerbaijian ed esercitare il suo pieno diritto all’autodifesa”.

Come dimostrano le recenti dichiarazioni delle Co-Presidenze del Gruppo Minsk in seno all’ OSCE, quello è l’unico ente a livello internazionale che dispone del pieno mandato per la risoluzione dei conflitti Nagorno – Karabakh. Nella dichiarazione dello scorso 18 maggio infatti i Co-Presidenti hanno osservato che “secondo le informazioni raccolte da più fonti affidabili, il 15 maggio, le forze armate azerbaigiane hanno sparato un missile attraverso la linea di contatto, colpendo attrezzature militari”.

Inoltre lo scorso 4 luglio le forze armate azerbaigiane hanno utilizzato un sistema multiplo di lanciarazzi contro Nagorno-Karabakh. In risposta, l’esercito di difesa di Nagorno-Karabakh si è sentito obbligato a prendere misure per contrastare le azioni aggressive del partito azerbaigiano. Secondo Aldo Di Biagio, senatore di Ap-Ce, membro della Commissione diritti umani del Senato, a pochi giorni dall’acuirsi degli attriti lungo la linea di contattato con l’area del Nagorno-karabakh che è stato teatro di attacchi da entrambe le fazioni, “è opportuno chiarire la responsabilità del Governo di Baku e le tattiche di attacco perpetrate in aperta violazione del cessate il fuoco e che hanno legittimato la risposta militare armena, al di là della retorica e della mistificazione della realtà a cui purtroppo si continua ad assistere anche da parte di interlocutori italiani”.

Secondo l’ambasciatrice armena in Italia, al fine di comporre un mosaico equilibrato e completo, è utile ricordare che le posizioni Nagorno-Karabakh sono state attaccate dal luogo in cui si trova la popolazione civile dell’Azerbaijan. “Non è la prima volta che la leadership azerbaigiana utilizza la popolazione transfrontaliera come uno scudo umano per bombardare il territorio di Artsakh. Questo fatto è stato portato all’attenzione della comunità internazionale in numerose occasioni”.

E molte foto sono state pubblicate da Artsakh Defense Army: dimostrano che l’Azerbaijan pone le sue installazioni militari in insediamenti pacifici.

Una tesi corroborata dal fatto che, in occasione del Consiglio Permanente dell’Osce dello scorso 6 luglio, il rappresentante francese ha presentato una nuova dichiarazione a nome del gruppo OSCE Minsk in relazione alle recenti violazioni del cessate il fuoco nella linea di contatto Nagorno – Karabakh: si chiedeva di rinunciare a qualsiasi “azione ostile che avrebbe potuto comportare vittime civili inaccettabili”. E i co-presidenti hanno considerato l’incidente del 4 luglio come un’azione provocatoria che mina gli sforzi di pace e potrebbe provocare una rottura nei prossimi negoziati.

“Ricordiamo alle parti i loro obblighi derivanti dalle Convenzioni di Ginevra, ovvero astenersi da ogni azione ostile che potrebbe portare a vittime civili inaccettabili. Invitiamo le parti ad adottare misure immediate per attenuare la situazione e rispettare rigorosamente l’accordo di cessate il fuoco 1994/1995″, recita la dichiarazione.

“Ci rammarichiamo – conclude l’ambasciatrice – della perdita di qualsiasi vita civile indipendentemente dalla loro nazionalità. Finché l’Azerbaijian non riesce ad attuare i propri impegni internazionali, la stessa leadership dell’Azerbaijian ha piena responsabilità per tutte le vittime umane di quelle provocazioni”.