Artsakh, tregua (precaria) nell’Eden

Corriere della sera (6 luglio 2019), Antonia Arslan

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L’Artsakh è una terra antica e colta, provata dalla guerra con l’Azerbaigian. Anticipiamo una sintesi del contributo di Antonia Arslan per il nuovo numero di «Vita e Pensiero»

Non è facile parlare del Nagorno Karabakh — e neppure capirlo. Questo piccolo Paese aggrappato alle montagne del Caucaso, è davvero, infatti, un giardino segreto, come lo ha definito Graziella Vigo dopo averlo percorso in lungo e in largo scattando le sue preziose fotografie, parlando con la gente, annusandone i profumi e captando la sua misteriosa lunghissima storia, come la si respira in ogni angolo di questa terra. Non è facile: a cominciare dal nome, che significa «giardino nero» (un misto di due vocaboli, uno russo e uno turco, che non rispecchia la vera natura della regione, che infatti ufficialmente oggi si chiama Artsakh, un altro nome derivato da un termine dell’armeno antico, tsakh, che significa «legno»).

Legno, cioè boschi, foreste: questa parte del Caucaso orientale, che si estende per circa 11.500 chilometri quadrati, abbraccia e protegge l’Altopiano Armeno verso est, e comprende alcuni dei più antichi e durevoli insediamenti del popolo armeno. Appartenente alla famiglia indoeuropea, esso si era insediato in tutta la grande zona fra il Monte Ararat, il Caucaso e i tre grandi laghi di Van, Sevan e Urmià, verso il VII secolo a.C. La tribù armena che qui si stabilì ha messo radici che non sono mai state tagliate; la gente di qui ha combattuto per la propria terra, ha difeso una certa indipendenza, ha conservato perfino una classe nobiliare, i melik, che altrove è scomparsa. Il popolo dell’Artsakh non ha subito il trauma del genocidio del 1915 perché, come l’Armenia del Caucaso, non faceva parte dell’impero ottomano: per molti secoli rimasto sotto l’influenza persiana, col trattato di Gulistan del 1813 passò in potere dello zar di Russia, che nel 1828 riuscì ad annettersi tutta la Transcaucasia.

Questa terra isolata, ma fertile e ricca d’acque, costituiva da millenni un importante nodo di passaggio verso occidente. L’Artsakh si convertì al cristianesimo insieme al resto d’Armenia, e vi furono costruiti importanti monasteri. La capitale, Shushi, era nell’Ottocento una delle città più importanti del Caucaso, seconda solo a Tiflis, l’odierna Tbilisi, ed era conosciuta per la sua vivacissima vita economica e culturale. I suoi abitanti avevano stretti rapporti con il mondo russo e con quello occidentale, e molti giovani andavano a studiare all’estero.

E non solo gli uomini, anche le donne. Il 22 dicembre 1895, sul suo giornale «Il Mattino», Matilde Serao pubblica il resoconto di una conferenza tenuta all’Università di Vienna da una dottoressa in medicina che è — scrive — «discendente da un’antica famiglia principesca dell’Armenia». Si tratta di Margarit Melik Beglarian, appartenente a una delle più antiche famiglie dei melik dell’Artsakh. Il resoconto della conferenza è estremamente interessante. «Il mio Paese», dice Margarit, «è selvaggio e incivile, ma se voi andate in una tenuta vedrete quanto volentieri un possidente divida con i contadini il suo patrimonio e il suo tempo. Vadano pure maestre, medichesse e magari avvocatesse in quei luoghi e vedranno con quanta affabilità verranno accolte. La gente non dirà: “Questa è una donna e quindi comprende poco”. Io non conosco nessun proverbio armeno che dileggi l’inferiorità della donna. […] La donna armena non è per nulla da meno dell’uomo e, se anche talvolta le manca la cultura, la sua naturale forza d’animo è tale da farla ovunque oggetto di considerazione».

Tornando al nome: «Artsakh. Questo è il nome giusto, antico, quello armeno, e definisce questi territori dalla più remota antichità — ti dice la gente del posto — e risale a prima di quando diventarono parte dei domini del re Tigranmetz». Effettivamente Tigrane il Grande, nel I secolo a.C., fu l’armeno che arrivò a regnare su un estesissimo impero, che andava dal Mar Nero al Monte Ararat alle pianure d’Anatolia, giungendo fino alla Siria e alla Palestina. Quella fu la massima estensione della Grande Armenia; e di questo re gli armeni mantengono un ricordo divenuto leggendario: re Tigrane regnò molto a lungo e aveva il vezzo di costruirsi capitali. A Tigranakert, la sua capitale in loco, gli archeologi scavano da anni; a me è capitato di andarci in un pomeriggio di aprile nel 2015, durante il mio primo viaggio nel Paese.

Era l’inizio della nuova stagione. Il professor Hamlet Petrosyan, direttore degli scavi, ci invitò a visitare tutto, ma soprattutto l’appena riscoperta basilica paleocristiana. Sulle colline indugiava un tramonto di fuoco, e — come nelle favole — un cavallo solitario galoppava verso il sole. Mi sentii nel centro di un mondo antichissimo e tuttavia vitale, coraggioso. Eppure questa serenità laboriosa è una faticosa conquista dopo una guerra per la sopravvivenza non ancora finita: la pace fra l’Artsakh e l’Azerbaigian è ancora lontana, c’è soltanto — da più di vent’anni… — uno stato di tregua armata. Ma, nonostante la perdurante incertezza diplomatica, il Paese — abitato da circa 150.000 persone — lavora perché la sua indipendenza de factoprosegua e si rafforzi. La capitale attuale, Stepanakert, giace al centro di una vallata accogliente, poco lontana da Shushi, dove durante la guerra la cattedrale e gran parte delle case furono quasi completamente distrutte. Oggi è in piena ricostruzione.

È superfluo ricordare che l’area del Caucaso è — ed è sempre stata — di straordinaria complessità etnica e linguistica; tuttavia le cause della guerra del Nagorno Karabakh (oggi Artsakh) sono in realtà abbastanza semplici, se la si considera nella prospettiva delle attuali rivendicazioni di molte etnie circa il loro «spazio vitale», il territorio dove vivono e vogliono continuare a vivere in libertà. All’inizio del Novecento, gli armeni dell’impero ottomano furono spazzati via — dal 1915 in poi —, vittime del primo genocidio del secolo. Un certo numero di sopravvissuti trovò rifugio nell’Armenia caucasica, sotto la protezione della Russia zarista. Dopo la rivoluzione del 1917 si forma nel Caucaso una federazione transcaucasica, che dà origine a tre repubbliche indipendenti (Georgia, Armenia, Azerbaigian). Nel 1920 tuttavia anche la Transcaucasia cade nelle mani dei bolscevichi. Sarà Stalin a rimescolare le carte fra le tre nazioni, assegnando nel 1921 all’Azerbaigian il territorio del Karabakh, abitato per il 95% da armeni.

Questa situazione dura fino alla crisi finale dell’Urss. Dovunque ci sono minoranze, le diverse nazionalità rialzano il capo: anche in Karabakh. Nel 1988 avvengono scontri in diverse località fra azeri e armeni, che sfociano nella violenza di pogrom e massacri organizzati. Nel frattempo, nel caos legislativo del tramonto sovietico, i rappresentanti del soviet del Karabakh proclamano uno statuto di autonomia e infine l’indipendenza nel 1991. Nel gennaio 1992 cominciano i bombardamenti azeri. La guerra va avanti per due anni, con distruzioni massicce sul territorio dell’Artsakh, ma trovando un’inaspettata e decisa resistenza. Gli armeni hanno presente l’incubo del 1915, e sanno di combattere per la propria terra: fra alterne vicende, riescono a tenere il territorio.

La tregua (spesso purtroppo violata) fu firmata nel maggio 1994. A tentare un riavvicinamento delle posizioni lavora da anni il Gruppo di Minsk della Csce. Oggi, mentre in Azerbaigian si è consolidata una successione dinastica nella famiglia Aliyev, con un progressivo parallelo restringersi delle libertà di opinione e di critica, in Armenia la «rivoluzione di velluto» del 2018 ha portato al potere Nikol Pashinyan, con un forte programma di rinnovamento sociale e politico: speriamo! Ma io credo che della realtà esistente e del popolo fiero e gentile dell’Artsakh, avamposto orientale, davvero non ci si deve dimenticare.