FONTE: Il Giornale/ Occhi della guerra (Simone Zoppellaro), 9 aprile 2016

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Dopo cinque giorni di combattimenti, che hanno prodotto decine di morti da entrambe le parti, si è arrivati a una tregua in Nagorno-Karabakh.

Il 5 aprile fra armeni e azeri si è tornati al fragile equilibrio del cessate il fuoco firmato nel 1994. Una firma a cui non è seguito alcun accordo di pace, e che lascia questa regione, ancora ufficialmente parte della Repubblica dell’Azerbaijan, come sospesa in un limbo. La Repubblica del Nagorno-Karabakh, a un quarto di secolo dalla sua autoproclamazione, non ha trovato alcun riconoscimento internazionale, neppure da parte dell’Armenia. Dopo la tregua, entrata in vigore martedì a mezzogiorno, i due paesi hanno continuato ad accusarsi di nuove violazioni. Anche dopo questa data, ci sono stati alcuni morti da entrambe le parti. Ma ormai i riflettori internazionali erano spenti, e il Nagorno-Karabakh è tornato ad essere quello che è da decenni, nonostante si continui sempre a sparare e a morire: un conflitto dimenticato.

Per comprendere meglio quanto avvenuto, abbiamo intervistato Armen Ashotyan, vicepresidente del Partito Repubblicano, attualmente al governo in Armenia, nonché portavoce ufficiale del partito per le relazioni internazionali.

L’escalation degli ultimi giorni ha lasciato il mondo con il fiato sospeso. Eppure, c’è molta confusione riguardo alle ragioni che hanno portato a questa nuova esplosione di violenza. I due paesi hanno fornito versioni discordanti sull’insorgere degli ultimi scontri, definiti come i più gravi degli ultimi 20 anni. Qual è la versione sua e del suo paese?

Il presidente Aliyev, i ministri degli esteri e della difesa dell’Azerbaigian, diverse volte negli ultimi anni hanno annunciato pubblicamente di voler ricorrere alle armi per risolvere il conflitto in Karabakh. Il fatto che la comunità internazionale abbia ignorato a lungo questi proclami ha portato all’escalation del conflitto. La leadership azera ha deciso di risolvere la questione per via militare, usando tutte le armi moderne che hanno acquistato negli ultimi anni, essendo uno dei paesi più militarizzati al mondo che spende un’enorme quantità di soldi per armarsi.Per quanto riguarda la parte armena, che include anche la Repubblica del Nagorno-Karabakh, non c’era nessuna ragione di rilanciare questo conflitto armato, né da un punto di vista politico, economico o militare. Il punto è che il governo corrotto e dispotico del presidente Aliyev cerca di distogliere l’attenzione della società civile azera dagli enormi problemi sociali, economici e della democrazia, cercando di creare l’immagine di un nemico con una guerra breve ma vittoriosa. Ma la sua guerra lampo ha fallito. Perché questa guerra dei cinque giorni ha dimostrato che l’esercito armeno, o meglio l’esercito del Nagorno-Karabakh in primo luogo, è pronto a garantire la sicurezza nostra e della sua gente. Credo che sia fondamentale che la comunità internazionale prevenga escalation come queste in futuro. E ciò investigando nel dettaglio cosa è avvenuto questa volta, chi è colpevole, e chi ha fatto cosa. Un meccanismo di prevenzione e monitoraggio è di importanza vitale per mantenere la pace nella regione del e per spingere l’Azerbaijan al tavolo delle trattative nella cornice del gruppo di Minsk, l’unica organizzazione internazionale delegata alla riconciliazione.

Quali sono le motivazioni politiche che hanno portato agli ultimi eventi? Perché proprio in questo momento? E, soprattutto, perché quest’ultima volta si è arrivati a uno scontro così violento?

Prima di tutto dobbiamo ricordare che l’Azerbaijan ha comprato una quantità enorme di armi modernissime negli ultimi anni. Inoltre, a causa della caduta del prezzo del petrolio, nel paese c’è una grande crisi sociale e finanziaria. Dobbiamo inoltre ricordare i problemi politici, le restrizioni alla libertà e la questione dei diritti umani in Azerbaijan. Questi problemi possono essere risolti solo rimpiazzando l’attuale presidente dell’Azerbaijan o – ed è questa la sua idea – distogliendo l’attenzione dai problemi interni verso l’esterno. Dobbiamo infine ricordare il possibile ruolo della Turchia. La Turchia è stata l’unico paese che ha voluto schierarsi apertamente in questo conflitto, congratulandosi con Aliyev per la sua presunta vittoria in questa guerra. Il presidente e il primo ministro turco più volte hanno espresso il loro appoggio incondizionato all’Azerbaijan “fino alla fine”. E questo nonostante l’approccio della comunità internazionale faccia appello sempre a entrambi gli stati, cerchi non la guerra ma la pace e la riconciliazione.

Ha parlato dell’ultima escalation come di un’aggressione da parte dell’Azerbaijan. Ora parliamo invece del ruolo dell’Armenia. Qual è la vostra strategia?

Il presidente Sargsyan ha annunciato giorni fa che l’Armenia firmerà un trattato con il Nagorno-Karabakh per la sicurezza e la cooperazione militare. Questa guerra dei cinque giorni ci dimostra che la sola garanzia per la sicurezza degli abitanti del Nagorno-Karabakh è il suo esercito. Grazie a Dio, ma anche alla gente di questa regione, la guerra lampo pianificata da Aliyev ha fallito. Non è riuscito a guadagnare neppure un metro, ed ha anzi avuto molti caduti nel suo esercito, che è stato ricacciato nelle posizioni precedenti alla escalation. Per il futuro della repubblica del Nagorno-Karabakh e della sua gente, questi devono fare affidamento prima di tutto sulle loro capacità di difendere la loro patria. Certo, dobbiamo anche fare appello alla comunità internazionale, alle istituzioni europee e al gruppo di Minsk, e ad altri importanti attori della politica mondiale, affinché investighino e monitorino la situazione in futuro, sviluppando un meccanismo più appropriato per mantenere il cessate il fuoco. Inoltre, serve un modo per punire la parte che lo viola, altrimenti simili aggressioni potrebbero essere ripetute in futuro, mettendo a rischio la stabilità della regione, e non solo. Si tratta anche di una sfida per la sicurezza europea perché il Caucaso del Sud è una regione importante da molti punti di vista. Ci aspettiamo di più dalle istituzioni europee. Vogliamo essere trattati sulla base di quanto avviene, e non con un approccio indiscriminato che prescinda da chi è colpevole o meno, da chi aggredisce e da chi cerca solamente di difendere sé e la sua patria.

Dopo tanti anni di questo conflitto congelato, che poi congelato più non è di certo, qual è la prospettiva di lungo termine dell’Armenia per giungere a una soluzione?

L’Armenia è d’accordo a continuare la negoziazione nella cornice del gruppo di Minsk, che ha elaborato i principi di una possibile riconciliazione. Questi sono frutto di un compromesso, ma li accettiamo come base per una futura riconciliazione. La leadership azera rinnega gli sforzi della comunità internazionale con un approccio distruttivo nei confronti dello stesso gruppo di Minsk. Per giungere alla riconciliazione c’è bisogno di un sistema di monitoraggio e supervisione della situazione sulla linea di contatto, ed è fondamentale inoltre che il Nagorno-Karabakh ritorni ad essere parte del processo di negoziazione. Perché è impossibile decidere il futuro degli abitanti del Nagorno-Karabakh senza coinvolgere le autorità che li rappresentano.

Viene spesso sollevato il problema degli sfollati azeri che lasciarono il Nagorno-Karabakh durante la guerra. Qual è la soluzione proposta dall’Armenia per quel che riguarda questo punto? Si può immaginare un loro ritorno in Nagorno-Karabakh?

Voglio sottolineare innanzitutto che negli anni novanta ci furono rifugiati da entrambe la parti. In Armenia e in Nagorno-Karabakh ci sono migliaia di rifugiati provenienti dall’Azerbaijan. Ma i rifugiati sono una conseguenza del conflitto, e non la causa. Per risolverlo, dobbiamo guardare alle radici e cercare di risolvere le ragioni che hanno prodotto il conflitto, e non le conseguenze. Dobbiamo capire che senza riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno-Karabakh, ogni soluzione è destinata a fallire. Questo è anche uno dei pilastri per la riconciliazione su cui lavora il gruppo di Minsk.

Mosca è un partner strategico importante dell’Armenia. Ma cosa farebbe la Russia in caso si tornasse a una guerra aperta? E che cosa fa Mosca per cercare la pace?

La Russia è alla co-presidenza del gruppo di Minsk insieme a Francia e Stati Uniti. Il fatto che sia coinvolta nella riconciliazione implica che la Russia, come questi altri paesi, debba impegnarsi con tutte le parti del conflitto. Mosca è un alleata strategica dell’Armenia e siamo parte di uno stesso blocco politico e militare.