Sumgait, un massacro impunito

Nel 30° anniversario del pogrom antiarmeno di Sumgait, un’analisi su quegli eventi e sulla attuale politica razzista e armenofoba dell’Azerbaigian.

Il mese di febbraio del 1988 fu cruciale sia per le relazioni armeno-azere, che per la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo del Caucaso meridionale. Infatti, proprio nel febbraio del 1988, in risposta alle manifestazioni pacifiche della popolazione armena del Nagorno-Karabakh che esprimeva la sua volontà di staccarsi dall’Azerbaigian, le autorità azere reagirono organizzando, nelle città densamente abitate dagli armeni, violenze disumane contro l’inerme popolazione armena.

Da quel momento il corso degli eventi nella regione fu predeterminato: l’escalation di violenza si manifestò con attacchi da parte di orde di criminali istigati dall’Azerbaigian e, successivamente, anche da parte dell’esercito regolare contro la pacifica popolazione armena dell’Azerbaijan e del Nagorno Karabakh.

Tutto iniziò nella città azera di Sumgait. Centinaia furono le vittime armene di un massacro durato tre giorni. Con il sostegno esplicito e la connivenza delle autorità azere, le bande anti-armene uccisero brutalmente donne, uomini, bambini e anziani nelle loro case e nelle strade della città. Anche oggi, a distanza di 30 anni, leggendo i terrificanti racconti dei testimoni, è impossibile accettare l’idea che un essere umano possa commettere ferocie di quel genere contro un altro essere umano. In quei giorni fu violato il più fondamentale dei diritti, il diritto alla vita. Le persone furono prese di mira e uccise per un solo motivo: l’appartenenza etnica. Per gli azeri, gli armeni non avevano il diritto di vivere.

Il 21 aprile 1988, il Premio Nobel Andrei Sakharov, attivista per i diritti umani ed eminente scienziato, in una lettera indirizzata al leader sovietico Mikhail Gorbaciov sui pogrom di Sumgait scriveva:  “Se prima degli eventi di Sumgait qualcuno poteva avere ancora dei dubbi, dopo questa tragedia non resta nessuna possibilità morale di insistere sul mantenimento dell’appartenenza territoriale del Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan. Le liste delle vittime di Sumgait non sono state pubblicate, cosa che mette in dubbio l’esattezza dei dati ufficiali relativi al numero delle vittime. Non ci sono informazioni sulle indagini. Un crimine del genere non può non avere degli organizzatori. Chi sono questi?”. Il 26 novembre 1988 in un’intervista al New York Times Sakharov dichiarava che “i massacri degli armeni rappresentavano una vera minaccia per lo sterminio della minoranza armena dell’Azerbaijan e della popolazione del Nagorno-Karabakh” (New York Times, 26 novembre 1988).

L’investigazione condotta dopo il massacro fu piuttosto superficiale e non trovò risposta alla domanda principale: chi fu l’artefice del massacro? chi aizzò la folla? Non vi è alcun dubbio che le azioni cruente furono dirette da un unico centro e molte sono le testimonianze che lo confermano.

Sebbene siano passati 30 anni, questo interrogativo è ancora aperto, sia per gli storici e i politologi, che per la gente comune. Dalle testimonianze raccolte durante i processi fu chiaro che anche le fasce più giovani della popolazione furono ampiamente coinvolte nei massacri degli armeni, persino gli studenti delle scuole superiori. In un’età in cui non si ha abbastanza esperienza di vita e in cui si sta costruendo il proprio bagaglio di valori morali, i ragazzi sono più facili da manipolare. I giovani azeri furono portati così a un estremismo violento attraverso l’istigazione all’odio verso gli armeni.

Sumgait divenne una delle prime espressioni di nazionalismo e di estremismo dell’élite politica dell’Azerbaigian. Cadde il velo che celava l’odio per gli armeni all’interno della società azera. E l’odio per gli armeni si tradusse anche nei confronti del patrimonio storico e culturale del popolo armeno presente in Azerbaigian, con la conseguente distruzione di monumenti storici di valore incommensurabile.

Purtroppo l’onda delle violenze iniziata a Sumgait arrivò fino a Baku, Kirovabad e in molte altre località dove erano presenti grandi comunità armene.

Fu proprio a seguito dei massacri di Sumgait che si verificarono i primi flussi di rifugiati all’interno dell’URSS. Le persone lasciarono le loro case, scappando dalle atrocità azere, fuggirono in Armenia e verso le altre repubbliche dell’Unione Sovietica. Non è stato ne il primo ne l’ultimo caso di accoglienza di rifugiati in Armenia. A partire dal 2011 sono circa 22.000 i rifugiati che dalla Siria hanno trovato una ospitalità in Armenia, mettendola al terzo posto in Europa per il  numero di rifugiati pro-capite.

Il Parlamento Europeo reagì al massacro di Sumgait con l’adozione, il 7 luglio 1988, di una risoluzione che definisce i massacri contro gli armeni come una minaccia per la sicurezza degli armeni residenti in Azerbaigian. Nella stessa risoluzione, il Parlamento Europeo condanna le violenze contro gli armeni ed esprime il proprio sostegno alla popolazione del Nagorno Karabakh (enclave…) nella sua richiesta di riunificazione all’Armenia. Dopo il massacro degli armeni a Baku, due anni dopo quelli di Sumgait, il Parlamento Europeo adottò un’altra risoluzione nella quale riaffermò la posizione del 1988.

Nel luglio del 1988, pochi mesi dopo i pogrom di Sumgait, il Senato degli Stati Uniti approvò all’unanimità l’emendamento alla legge sulle compensazioni finanziarie per l’azione estera per l’anno 1989 che riguardava il Nagorno Karabakh, in cui si chiedeva alle autorità sovietiche di rispettare le legittime aspirazioni del popolo armeno e con cui si affermava che, durante i pogrom avvenuti qualche mese prima, decine di armeni erano stati uccisi e centinaia feriti.

Nonostante la censura e lo stretto controllo sul flusso d’informazioni da parte delle autorità sovietiche, nel marzo del 1988 le notizie sui massacri di Sumgait, anche se incomplete e frammentate, raggiunsero i media internazionali. A marzo il Washington Post scrisse che erano stati commessi crimini terrificanti  contro gli armeni nella città azera di Sumgait. Il giornale, citando le parole dei “dissidenti moscoviti che avevano visitato questo territorio”, raccontò le atrocità commesse nei confronti degli armeni, tra cui anche i casi di “omicidi e mutilazioni di donne incinte nei reparti maternità degli ospedali”.

Il 27 settembre 1990, 130 esponenti del mondo accademico e difensori dei diritti umani, provenienti da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Canada e da altri paesi, pubblicarono sul New York Times una lettera aperta.  “È tornata un’era che tutti pensavamo fosse finita, l’era dei pogrom. Ancora una volta quest’anno, la comunità armena dell’Azerbaijan è stata vittima di massacri premeditati, atroci e intollerabili… Questa affermazione è da intendersi come qualcosa di più di una condanna post factum. Vogliamo allertare l’opinione pubblica internazionale sul continuo pericolo che il razzismo rappresenta per il futuro dell’umanità. È un presagio del male il fatto che stiamo vivendo la stessa impotenza di fronte a simili evidenti violazioni dei diritti umani, mezzo secolo dopo il genocidio del popolo ebraico avvenuto nei campi di concentramento nazisti e a distanza di quarant’anni dall’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Sarebbe imperdonabile se, a causa del nostro silenzio ora, contribuissimo alla sofferenza di nuove vittime. In nome del nostro dovere di vigilanza, chiediamo alle autorità sovietiche e alla comunità internazionale di condannare inequivocabilmente questi pogrom anti-armeni e, in particolare, di denunciare l’ideologia razzista che è stata usata dagli autori di questi crimini come giustificazione”.

Più orribile delle atrocità dei massacri, forse, fu il fatto che le autorità dell’Azerbaigian e dell’Unione Sovietica fecero di tutto per nascondere la verità su Sumgait. L’atmosfera di impunità e di permissività che si respirava, fu una dimostrazione che dietro ai massacri ci fosse proprio lo stato. Gli eventi successivi confermarono che risolvere i problemi nel modo in cui erano stati risolti a Sumgait, diventò il modo preferito delle autorità azere: nel maggio 1988 iniziò la deportazione degli armeni dalla città di Shushi; a novembre dello stesso anno l’ondata dei massacri anti-armeni attraversò tutto l’Azerbaigian. Tuttavia, non fu pronunciato nessun giudizio politico o giuridico.

La storia non ama i se ed è impossibile immaginare che cosa sarebbe accaduto se il governo azero avesse accettato le richieste del popolo del Nagorno-Karabakh – che tra l’altro erano del tutto in linea con la legislazione in vigore all’epoca nell’URSS – o se avesse reagito in modo civile… Probabilmente anche in quel caso gli azeri non avrebbero accettato l’applicazione del diritto inalienabile del popolo dell’Artsakh di essere indipendenti e di poter determinare il proprio destino. L’esclusione dell’uso della forza da parte dell’Azerbaijan, avrebbe creato un clima di sicurezza e di stabilità nella regione, nonché condizioni più favorevoli per la risoluzione del conflitto in questione e di altri conflitti simili in via esclusivamente pacifica.

E la comunità internazionale, tramite i co-presidenti del gruppo di Minsk dell’OSCE, non avrebbe sollecitato il ridimensionamento della retorica xenofoba, non si sarebbe appellata per una riconferma dell’impegno a risolvere il problema esclusivamente in via pacifica, non avrebbe chiesto la riduzione delle tensioni lungo il confine armeno-azero e lungo la linea di contatto, così come non avrebbe richiesto di accettare la creazione di meccanismi di investigazione delle violazioni del cessate il fuoco e di potenziare gli strumenti di monitoraggio dell’Ufficio del Rappresentante personale del Presidente in esercizio.

Purtroppo i 30 anni trascorsi dai massacri di Sumgait dimostrano che il governo azero agisce sempre con le stesse modalità. La costante retorica xenofoba, la propaganda dell’odio verso gli armeni ha portato a una progressiva disumanizzazione degli armeni per la società azera. La celebrazione statale di un assassino a sangue freddo come Safarov, l’uso di artiglieria pesante contro bambini innocenti, il brutale assassinio degli anziani e la mutilazione dei loro cadaveri durante la guerra dei quattro giorni nell’aprile del 2016, dimostrano che lo spirito dei massacri di Sumgait fa parte della politica delle autorità azere.

Fino a quando le autorità e la società azere non avranno fatto i conti con la tragica storia di trenta anni fa, non sarà possibile parlare della sicurezza, della pace e della stabilità nella regione.