NK, NELLE TRINCEE IN CUI DA 25 ANNI IL PAESE LOTTA PER L’INDIPENDENZA

Marut racconta che nel ’45 il nonno aveva combattuto i tedeschi, uno zio negli anni Ottanta i taliban in Afghanistan, il padre nel ’92 gli azeri in Nagorno-Karabakh, il suo paese.

E lui ora – la mimetica sbiadita, la baionetta nel cinturone e una laurea in tasca – da due anni è al fronte contro l’Azerbaigian. La storia di Marut è simile a quella di molti da queste parti. “Qui tutti hanno combattuto per difendere la nostra terra, le nostre montagne”, spiega imbracciando un kalashnikov così malconcio che sembra aver fatto tutte le guerre che racconta.

Marut e i suoi compagni – soldati di leva poco più che ventenni, visi smagriti, capelli rasati, pelle cotta dal sole – sono all’ombra dei sacchi di sabbia. Si riparano dai cecchini e dal caldo asfissiante. E scacciano come possono gli insetti, la nostalgia di casa, il tempo che non passa mai.

C’è anche chi chiude gli occhi e prega nella cappella improvvisata tra i reticolati, coperta di polvere, santini stropicciati, lumini spenti. I nemici sono invece là, a una manciata di metri dal filo spinato, oltre i campi minati, in fondo alla terra di nessuno. “Un paio di settimane fa hanno ucciso uno dei nostri” ricorda Marut indicando la feritoia sottile pochi centimetri in cui si è infilato il colpo mortale.

Il fronte – lungo centinaia di chilometri – segue tutto il confine con l’Azerbaigian, dall’Iran fino all’Armenia. È solcato da trincee torride d’estate che l’autunno trasforma in pantani umidi e l’inverno in ricoveri gelidi battuti dal vento e dai mortai nemici. Guerra di posizione, di logoramento.

Guerra dimenticata combattuta da quasi venticinque anni e per chissà quanto tempo ancora. Perché la pace quassù è sempre distante, eternamente appesa a un filo, a un passo falso, una frase di troppo. L’Azerbaigian rivuole la sua provincia, il Nagorno-Karabakh la sua libertà, e questo fragile equilibrio (a volte non si spara per mesi, poi, all’improvviso, i combattimenti riprendono furiosi…) continua a costare milioni di dollari per gli armamenti. E vite umane, ovviamente: una decina solo nell’estate 2015.

Tutto è iniziato alla fine degli anni Ottanta con il crollo dell’Unione Sovietica, che settant’anni prima aveva regalato questa regione dell’Armenia cristiana all’Azerbaigian musulmano.

Nel ’91 il referendum per riottenere l’indipendenza scatenò il conflitto che in due anni causò trentamila morti, migliaia di feriti, quasi un milione di profughi e dispersi innumerevoli. Decine di villaggi vennero rasi al suolo, i ponti sbriciolati, chiese e moschee ridotte in macerie.

“Fu guerra etnica, non religiosa” sostengono in molti, da una parte e dall’altra. “Siamo l’ultimo caposaldo per difendere l’Europa cristiana dall’assalto dell’Islam. La Russia l’ha capito, voi no”, ripete un ufficiale sgranando il rosario fra le dita. La stessa Russia che in Armenia mantiene una guarnigione ma non rinuncia a vendere armi all’Azerbaigian per cifre da capogiro.

Nel mezzo, la lotta ostinata di questa piccola nazione che nessun Paese al mondo ha finora riconosciuto, neanche la madrepatria armena. “Siamo le nostre montagne” ricorda il monumento alle porte di Stepanakert, la capitale. Montagne aspre, belle e dimenticate su cui giovani come Marut continuano a fronteggiarsi. E a morire.

L’autore di questo articolo e delle foto che lo accompagnano è Roberto Travan, giornalista del quotidiano La Stampa. Travan, cinquant’anni, vive e lavora a Torino, e ha realizzato reportage in Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Kosovo, Armenia e Ucraina. Per il suo ultimo lavoro realizzato in Nagorno-Karabakh è stato dichiarato “persona non grata” all’Azerbaigian per i prossimi cinque anni.