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Oggi ricorre il trentesimo anniversario dei pogrom armeni a Baku, uno degli episodi più tragici del conflitto tra Azerbaigian e Karabakh. Il 13 gennaio 1990, l’oppressione mirata degli armeni di Baku si trasformò in un massacro diffuso e organizzato. Il ministero degli Affari esteri della repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh) lo ha osservato in una dichiarazione, che recita anche come segue:

«Cantando gli slogan “Gloria agli eroi di Sumgait!”, “Lunga vita a Baku senza armeni!”, una folla di migliaia di persone, divisa in gruppi guidati da attivisti del Fronte Popolare dell’Azerbaigian (PFA), attuò una “pulizia” metodica degli armeni casa per casa. Le prove abbondano di atrocità e omicidi commessi con estrema crudeltà.

Coloro che riuscirono a sfuggire alla morte furono sottoposti a deportazione forzata. Migliaia di armeni furono portati nel porto della città di Krasnovodsk, in Turkmenistan, con un traghetto attraverso il Mar Caspio, e furono successivamente inviati in Armenia e Russia con aerei.

I massacri continuarono per un’intera settimana nelle condizioni di completa inattività delle autorità azere, delle truppe interne e del grande presidio dell’esercito sovietico di Baku.

Il 18 gennaio, in occasione dei massacri di armeni a Baku, nonché degli attacchi armati ai villaggi armeni della regione di Shahumyan e Getashen, il Parlamento europeo adottò una risoluzione intitolata “Sulla situazione in Armenia“, che chiedeva le autorità dell’URSS di garantire una reale protezione della popolazione armena che vive in Azerbaigian inviando forze per intervenire sulla situazione.

Unità dell’esercito sovietico furono schierate nella capitale della Repubblica Socialista Sovietica azera solo nella notte del 20 gennaio 1990 che fermò i pogrom, superando la feroce resistenza delle unità armate del Fronte Popolare dell’Azerbiagian.

I pogrom di Baku sono diventati uno dei più sanguinosi crimini di massa contro la popolazione armena in una serie di pogrom, deportazioni, pulizia etnica e altri crimini contro l’umanità compiuti in Azerbaigian dal febbraio 1988. Secondo varie fonti, da 150 a 300 persone sono morte in conseguenza di tale massacro.

Condanniamo la negazione permanente da parte delle autorità azere degli atti di genocidio e l’esaltazione degli autori di quei crimini, negazione che è diventata parte integrante della politica di Baku di promozione della xenofobia e dell’odio nei confronti degli armeni.

Oggi, l’inculcazione dell’armenofobia e la promozione di crimini di odio contro gli armeni sono state elevate al rango di politica statale in Azerbaigian e sono penetrate in tutte le sfere della vita pubblica in questo paese, causando così gravi cambiamenti nella coscienza della società azera.

Il problema della xenofobia nei confronti degli armeni in Azerbaigian ha raggiunto dimensioni tali che è diventata una delle principali fonti di minacce alla stabilità e alla sicurezza regionali.

Per superare questi processi negativi e prevenire un aumento della xenofobia in Azerbaigian, sarà necessaria l’attuazione di una serie di misure, con il sostegno della comunità internazionale, che consentano alla società azera di sbarazzarsi di odiose norme e delle linee guida imposte dalle autorità.

Un passo importante nel processo di eradicazione dei fenomeni negativi causati dalla propaganda pluriennale dell’odio nei confronti degli armeni potrebbe essere il riconoscimento da parte delle autorità azere di responsabilità per i crimini di massa commessi contro la popolazione armena, compresi i pogrom di Baku. Ciò non solo migliorerà la situazione nello stesso Azerbaigian, ma creerà anche i presupposti per stabilire una pace duratura nella regione».

Il caffè geopolitico del 31.12.2019 di Chiara Soligo

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In 3 sorsi – Ispirato dalla rivoluzione armena, il Nagorno-Karabakh inaugura una nuova stagione di dialogo e di apertura politica.

1. 2017: L’ANNO DEI CAMBIAMENTI POLITICI

Soffia il vento del cambiamento in Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra Yerevan e Baku. In vista delle prossime elezioni del 2020, la piccola Repubblica si sta aprendo alla competizione politica e al pluralismo delle idee. Le modifiche alla Costituzione del Karabakh, approvate con il referendum del 2017, rappresentano la premessa per il rinnovato clima di dialogo. Con la votazione, il sistema di Governo della Repubblica dell’Artsakh è stato trasformato da semi-presidenziale a presidenziale. La transizione alla nuova Costituzione avverrà nel 2020, quando scadrà il mandato dell’attuale Parlamento. Bako Sahakyan, che nel 2017 avrebbe dovuto terminare il suo regolare mandato come Primo Ministro, è stato nominato dal Parlamento Presidente ad interim fino al 2020, per accompagnare la Repubblica nella transizione dalla vecchia alla nuova Costituzione. Sahakyan, pur avendo dichiarato di non voler competere nelle prossime elezioni del 2020, sta ora godendo di grandi poteri senza essere stato regolarmente votato dagli elettori. L’attuale Presidente ha avuto un ruolo rilevante nel permettere al Governo di Yerevan di controllare da vicino il Karabakh, condannato a una realtà politica stagnante e priva di cambiamento.

2. LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO

La Rivoluzione di Velluto in Armenia (2018) ha rimescolato le carte in tavola anche a Stepanakert. Con la destituzione del Presidente armeno Sargsyan, perfino l’élite politica del Karabakh si è trovata disorientata e priva del suo più prezioso sostenitore. Alle elezioni del 2020 l’influenza esercitata da Yerevan sarà quindi molto inferiore rispetto a quanto accaduto negli anni passati. Sono in competizione formazioni politiche con diverse agende, alcune legate all’establishment e altre portatrici di rinnovamento. Il Movimento 88, guidato dal veterano di guerra Vitali Balasanyan, si presenta come l’unico partito in grado di “difendere la madre patria”. Libera Patria, sotto l’egida di Harutyunyan, sostiene la tradizionale élite di Stepanakert. Rimane incerto il ruolo di formazioni politiche minori, quali il Partito Democratico dell’Artsakh, il Partito Comunista dell’Artsakh e la Federazione Rivoluzionaria Armena, che risentono della scarsità di risorse amministrative. Inoltre, la candidatura di Samvel Babayan, che si era presentato come figura di spicco all’interno della nuova opposizione, è stata considerata costituzionalmente inaccettabile a causa della sua assenza dal Karabakh per più di dieci anni.

3. QUALI SARANNO GLI SCENARI FUTURI?

Il neo-premier armeno Nikol Pashinyan, in occasione del primo incontro ufficiale con il Presidente azero Ilham Aliyev a Vienna (marzo 2019), si era dichiarato disposto ad intraprendere un dialogo costruttivo per la risoluzione del conflitto in Karabakh. Le speranze suscitate in quell’occasione sono però state spente dai toni assunti negli ultimi mesi dal dialogo tra Baku e Yerevan. I due leader, infatti, negli ultimi giorni di novembre hanno intrapreso un botta e risposta a distanza, cercando di scaricare l’uno sull’altro le responsabilità dei principali massacri della storia dei due Paesi, quello di Khojali e quello di Sumgait. Il fatto che, ad oggi, non siano ancora arrivati a una corretta ripartizione delle responsabilità, dimostra che, nonostante le parole di conciliazione pronunciate ad inizio 2019, la riappacificazione è ancora molto lontana e ciascuno dei due Paesi guarda principalmente ai propri interessi, ma non alle proprie colpe, passate e presenti. Rimangono dunque aperti gli scenari per l’anno 2020 a Stepanakert: se da un lato l’Armenia reclama a gran voce il territorio, dall’altro il suo minore controllo sul processo elettorale del Karabakh potrebbe portare alla vittoria di un leader non disposto a seguire incondizionatamente i dettami di Yerevan. Un allentamento della presa da parte armena potrebbe avere ripercussioni sull’influenza esercitata su Stepanakert da Baku, che aspirerebbe a ottenere maggiore libertà di azione. La posta in gioco è quindi molto alta per tutti i protagonisti di questa storica contesa, e gli esiti delle elezioni potranno condizionare in modo duraturo il destino del Karabakh.

Ilfattoquotidiano.it del 31.12.2019 di Pierfrancesco Curzi

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I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabilivecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a KazakistanTurkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.

Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.

Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.

Nel 2019, la situazione alla linea di contatto delle truppe contrapposte Artsakh-Azerbaigian può essere considerata relativamente stabile. Così si esprime il servizio stampa del Ministero della Difesa della Repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh).

«Non solo la sicurezza del personale [dell’Artsakh] coinvolto nel servizio di combattimento è stata sostanzialmente aumentata, ma la possibilità di tentativi di penetrazione sovversivi da parte delle forze armate azere è stata praticamente eliminata», si legge anche nella dichiarazione.

Riguardo alle violazioni dell’accordo di cessate-il-fuoco, nel 2019, il cessate il fuoco è stato violato dall’avversario circa 9000 volte sulla linea di contatto con oltre 85.000 colpi sparati all’indirizzo delle posizioni armene. Va notato che tale dato è il più basso dal 2010.

Facendo riferimento alla questione Artsakh, il comunicato stampa del ministero della Difesa sottolinea che «sebbene il 25° anniversario della firma dell’accordo di cessate il fuoco tra le parti sia stato segnato quest’anno, il Gruppo Minsk dell’OSCE – impegnato nella risoluzione della questione – non è riuscito a fare progressi dal momento che Baku non solo ha continuato a respingere i principi di base per la risoluzione della questione, ma ha anche ignorato le misure di rafforzamento della fiducia proposte dai co-presidenti per rafforzare il cessate il fuoco. Nessuno degli incontri di più alto livello e contatti informali tra le parti in conflitto nel corso dell’anno, nonché le sei riunioni dei ministri degli Esteri per promuovere i negoziati, sono stati in grado di compiere progressi grazie alle posizioni opposte delle parti.

Durante tutto l’anno, l’esercito di difesa [dell’Artsakh] ha contrastato con azione la sua forza e prontezza al combattimento la mancanza di progressi al tavolo dei negoziati e alle dichiarazioni di alto livello dell’Azerbaigian su una soluzione militare al conflitto del Karabakh, e ha continuato a svolgere un dettante ruolo in prima linea, garantendo così l’inviolabilità dei confini della Repubblica Artsakh e la vita pacifica della popolazione».

Dal canto suo il ministro della Difesa nonché Comandante dell’Esercito di difesa dell’Artsakh, Karen Abrahamyan, ha dichiarato in un messaggio di fine anno che l’Esercito «ha svolto la sua missione con onore assicurando la protezione dei confini del nostro paese e il diritto del nostro popolo di vivere pacificamente nella propria terra natale. Riassumendo il 2019 – continua il ministro – possiamo affermare con certezza che l’anno è stato segnato da una preparazione al combattimento tesa e scrupolosa ed è proseguito il potenziamento e la modernizzazione dell’armamento e dell’attrezzatura militare dell’esercito».

L’intervento del ministro degli Esteri dell’Armenia, Zohrab Mnatsakanyan , al Consiglio ministeriale dell’Osce di Bratislava. Parole chiare per risolvere il conflitto.

Signor Presidente,

Cari colleghi, Signore e signori, Signor Presidente, grazie per l’ospitalità e grazie per la leadership di questa Organizzazione durante tutto l’anno!

Ieri abbiamo tenuto un altro giro di consultazioni con la mia controparte azera e i copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE, il quinto di fila solo per quest’anno. A tale proposito, voglio illustrare la posizione dell’Armenia sugli aspetti chiave dell’insediamento pacifico del conflitto del Nagorno Karabakh.

In primo luogo, non vi è alternativa alla soluzione pacifica del conflitto all’interno della copresidenza del Gruppo Minsk dell’OSCE, un formato che è obbligatorio e sostenuto a livello internazionale.

In secondo luogo, il diritto inalienabile del popolo del Nagorno Karabakh all’autodeterminazione rappresenta un principio e una base fondamentali per la risoluzione pacifica. Il riconoscimento di questo principio non deve essere limitato nell’ambito della determinazione dello status finale del Nagorno Karabakh, deve essere chiaramente e inequivocabilmente accettato. Il termine “senza limitazione” implica chiaramente anche il diritto del popolo del Nagorno Karabakh di mantenere e determinare uno status al di fuori della giurisdizione, sovranità o integrità territoriale dell’Azerbaigian. Le persistenti politiche e azioni ostili dell’Azerbaigian volte a minare e minacciare la sicurezza fisica esistenziale del popolo del Nagorno Karabakh, compresa l’ultima tentata aggressione dell’Azerbaigian contro il Nagorno Karabakh nell’aprile 2016, sottolineano l’illegittimità e l’impossibilità di rivendicare la giurisdizione dell’Azerbaigian sul popolo del Nagorno Karabakh.

L’Azerbaigian deve assumere un impegno diretto per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del popolo del Nagorno Karabakh attraverso la libera espressione legalmente vincolante della volontà delle persone che vivono nel Nagorno Karabakh, il cui esito non dovrebbe avere limiti.

In terzo luogo, la sicurezza della popolazione del Nagorno Karabakh non sarà compromessa. In nessun caso la popolazione del Nagorno Karabakh dovrebbe essere lasciata senza linee di difesa sicure. Non vi sarà alcuna condizione di assumere un rischio per la sicurezza fisica esistenziale della popolazione del Nagorno Karabakh, come è avvenuto nel 1991-1994 e nel 2016. Per sottolineare questo punto, mi riferisco alla situazione nei territori del Nagorno Karabakh, attualmente occupati dall’Azerbaigian, in cui gli armeni erano stati ripuliti etnicamente e i territori sono stati completamente reinsediati dall’Azerbaigian. Questa realtà è stata recentemente presentata dalla dirigenza dell’Azerbaigian come un buon esempio di soluzione del conflitto nel Nagorno Karabakh.

In quarto luogo, la soluzione pacifica dovrebbe essere inclusiva coinvolgendo direttamente tutte le parti in conflitto. Pertanto, il Nagorno Karabakh attraverso i suoi rappresentanti eletti dovrebbe essere una parte diretta nel processo negoziale. A questo proposito, sottolineiamo la necessità del pieno impegno dei rappresentanti eletti di Artsakh nel processo di pace, in particolare sulle questioni fondamentali della sostanza. Il governo dell’Armenia non intraprenderà mai alcuna attività che possa violare il diritto del popolo del Nagorno Karabakh di determinare liberamente il proprio status politico o privarlo della proprietà di questo processo.

In quinto luogo, una soluzione pacifica non può aver luogo in un ambiente di tensioni e rischi di escalation. Pertanto, gli accordi di cessate il fuoco del 1994 e 1995 conclusi tra Azerbaigian, Nagorno Karabakh e Armenia dovrebbero essere rigorosamente rispettati e rafforzati. Dovrebbero essere attuati meccanismi di riduzione del rischio, compresi i meccanismi dell’OSCE che indagano sulle violazioni del cessate il fuoco e monitorano il regime del cessate il fuoco, anche attraverso l’espansione dell’ufficio del PRCiO [Rappresentante personale del Presidente dell’Osce in carica, NdT].

In sesto luogo, il principio di base del non uso della forza o della minaccia dell’uso della forza dovrebbe essere rispettato incondizionatamente. Le politiche di odio, intolleranza, xenofobia, armenofobia, istigate e dirette dalla leadership dell’Azerbaigian dovrebbero essere denunciate. Gli sforzi dovrebbero essere rafforzati per preparare le popolazioni alla pace e per creare un ambiente favorevole alla pace.

In settimo luogo, le posizioni massimaliste dell’Azerbaigian, che ignorano la volontà e la sensibilità del popolo del Nagorno Karabakh, sono ostacoli fondamentali a un progresso significativo nel processo di pace. L’incapacità delle autorità dell’Azerbaigian di ricambiare la richiesta di un compromesso da parte dell’Armenia è un caso specifico. Per ricordare, il Primo Ministro dell’Armenia ha dimostrato una forte volontà politica nell’annunciare che qualsiasi accordo dovrebbe essere accettabile per il popolo di Armenia, Artsakh e Azerbaigian, il che significa che l’accordo può essere basato solo su un compromesso.

Signor Presidente, l’Armenia rimane impegnata in buona fede nel processo negoziale e continuerà a lavorare costantemente per una soluzione pacifica. Allo stesso tempo, è inaccettabile che alla luce degli attuali sviluppi politici interni in Azerbaigian, quest’ultimo stabilisca le condizioni preliminari per il processo di pace, come manifestato in un documento di sintesi diffuso alla vigilia di questo Consiglio dei ministri. L’Armenia respinge tale approccio non costruttivo.

Infine, nell’ultimo mese abbiamo dimostrato un esempio modesto e tuttavia importante di rafforzamento della fiducia tra tutte le parti in conflitto. Lo scambio di giornalisti provenienti da Armenia, Nagorno Karabakh e Azerbaigian è un promettente esempio di costruzione di fiducia e dialogo inclusivo tra le parti a livello pubblico. Siamo pronti a sviluppare ulteriormente questo esempio. Inoltre, il livello relativamente basso di violenza lungo la linea di contatto e il confine internazionale, nonché l’uso della linea di comunicazione diretta dovrebbero essere sostenuti e potenziati. Tuttavia, restiamo seriamente preoccupati del fatto che, nonostante queste misure, ci siano state perdite e lesioni che avrebbero potuto essere evitate.

Mantenere gli impegni è fondamentale per creare fiducia nelle prospettive di soluzione definitiva del conflitto.

In conclusione, vorrei dare il benvenuto all’Albania come presidente entrante e augurare loro ogni successo. Grazie.

(traduzione e grassetto redazionali)

Tempi.it (15 ottobre 2019) di Rodolfo Casadei

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«Non siamo noi a volere il conflitto». Intervista al ministro dell’Economia dell’Artsakh, Levon Grygorian, in visita in Italia

L’Artsakh è una piccola repubblica assediata fra i monti del Caucaso. La abitano, la governano e la difendono i locali abitanti armeni che nel settembre 1991 dichiararono a loro volta la propria indipendenza per non essere assorbiti nell’Azerbaigian che un paio di settimane prima aveva deciso di costituire uno stato indipendente dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il territorio coincide con lo storico Nagorno Karabakh, che nel 1921 Stalin assegnò all’Azerbaigian nonostante fosse abitato in grandissima maggioranza da armeni che avrebbero preferito far parte della vicina repubblica sovietica di Armenia. Fra il 1991 e il 1994 nell’Artsakh e negli adiacenti territori azeri si è combattuta una guerra sanguinosa che è stata sospesa da un armistizio il 5 maggio 1994. Grazie anche al sostegno delle forze armate della repubblica di Armenia (a sua volta divenuta indipendente il 21 settembre 1991), gli armeni del Nagorno Karabakh hanno cacciato le forze armate dell’Azerbaigian dal loro territorio e occupato alcune aree azere adiacenti per creare una continuità territoriale con la vicina Armenia e per proteggere da eventuali attacchi di artiglieria la capitale Stepanakert. Lungo i 150 chilometri di trincee che separano le postazioni armene da quelle azere le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da venticinque anni a questa parte: uno stillicidio di vittime caratterizza le cronache dal fronte. Nell’aprile di tre anni fa l’Azerbaigian per la prima volta dalla firma dell’armistizio tentò un’operazione militare su larga scala che causò decine di morti e si concluse in uno stallo.

La repubblica di Artsakh non è riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, nemmeno dall’amica e confinante Armenia, ma i suoi 150 mila abitanti hanno bisogno di tutto per contrastare il parziale isolamento nel quale sono costretti a vivere da un quarto di secolo. Così nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e dell’Infrastruttura industriale della repubblica, Levon Grygorian, si è recato in visita ufficiosa in Italia per incontrare realtà della società civile italiana interessate a una cooperazione su più piani per lo sviluppo economico e umano del suo paese. Ha avuto colloqui con esponenti di associazioni imprenditoriali del Veneto e della Lombardia e in particolare ha perfezionato il gemellaggio fra l’Istituto Alberghiero che è parte dell’Istituto scolastico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e una struttura che sta nascendo a Stepanakert. Il ministro è stato ospite del ristorante didattico Saporinmente, annesso all’Istituto Alberghiero, e lì ci ha concesso un’intervista prima di continuare la sua visita.

Ministro, gli occhi di tutto il mondo sono rivolti con preoccupazione a ciò che sta succedendo nel nord della Siria: la Turchia ha promosso un’operazione militare volta all’occupazione di una fascia di territorio siriano. Cosa ne pensa?  

La guerra non è mai la soluzione, porta solo conseguenze negative. Noi siamo un popolo che conosce per esperienza diretta, e non per le immagini televisive, di quanta sofferenza sia causa la guerra, sappiamo che non risolve i problemi. Il governo dell’Artsakh non approva in alcun modo questo intervento militare.

Venticinque anni dopo la firma dell’armistizio che ha congelato la guerra del Nagorno Karabakh ancora non si intravede una soluzione definitiva al conflitto, e nel frattempo la Repubblica di Artsakh che si è costituita nel 1991 non è riconosciuta dai paesi membri dell’Onu. Come fate fronte a questa situazione di isolamento istituzionale?

La guerra non l’abbiamo voluta noi, non siamo stati noi a iniziarla. Al momento del collasso dell’Unione Sovietica abbiamo chiesto quello che chiedevano tutti i popoli dell’ex Urss: autodeterminarci, e nel nostro caso noi avremmo voluto unirci alla Repubblica di Armenia. Il governo azero ha rifiutato di riconoscere la nostra autodeterminazione e ha risposto con la guerra. Siamo sopravvissuti agli attacchi, abbiamo difeso e consolidato il nostro territorio, abbiamo firmato il cessate il fuoco del 1994. Da allora abbiamo operato su due fronti. Abbiamo ricostruito le città bombardate e distrutte, abbiamo organizzato le istituzioni della repubblica e abbiamo chiesto di essere riconosciuti a livello internazionale. Per il riconoscimento sappiamo che ci vorrà ancora tempo; nell’attesa continuiamo a costruire il nostro paese, e guardiamo con ottimismo al futuro: ne è una prova questa mia missione in Italia. Gli studenti che parteciperanno agli scambi con l’Italia appartengono alla generazione che non ha vissuto i giorni della guerra, e questo è un segno della nostra vitalità. Come sapete, i negoziati per la pace sono condotti dal cosiddetto gruppo di Minsk, il cui ufficio di presidenza è composto da rappresentanti di Francia, Russia e Stati Uniti. Noi non siamo presenti in questo organismo dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e i nostri interessi sono rappresentati indirettamente dall’Armenia, che invece ne fa parte.

Quali sviluppi ci sono stati dopo la crisi dell’aprile 2016, quando sembrava che il conflitto con l’Azerbaigian dovesse ricominciare su larga scala?

Abbiamo imparato molto da quella brutta esperienza. Oggia la nostra difesa è migliorata e ancora stiamo lavorando per avere forze armate ancora più efficienti. Non abbiamo altro che il nostro esercito a difenderci. Oggi come negli anni Novanta, non siamo noi che vogliamo la guerra: il nostro conflitto con l’Azerbaigian va risolto con la diplomazia. Ma come negli anni Novanta e come nel 2016, siamo pronti a difenderci. L’offensiva di tre anni fa mirava a sfondare il centro del nostro schieramento attirando le nostre forze agli estremi della linea del fronte, ma i nostri ufficiali hanno saputo interpretare la tattica nemica e non sono caduti nella trappola.

Quali sono i paesi maggiormente amici della Repubblica dell’Artsakh?

 Non facciamo preferenze, siamo aperti a tutte le relazioni, specialmente coi popoli europei. Non intendo fare nomi.

Che bilancio fa della sua visita in Italia che si sta concludendo?

Il bilancio è positivo. Siamo venuti in Italia per approfondire la conoscenza del sistema delle PMI e per prendere contatti per poterlo replicare nel Nagorno Karabakh: il Nord Italia ha una grande tradizione di piccola e media impresa, ed è un modello molto adatto alla nostra economia. Ci interessa anche collaborare in progetti per migliorare l’educazione e l’istruzione professionale nel nostro paese. Per entrambi gli obiettivi, abbiamo trovato interlocutori in Veneto e in Lombardia, specialmente in Brianza. Torniamo in patria dopo aver fatto una esperienza intensa e grande, che ci permetterà di approntare una piattaforma di collaborazione con l’Italia.

L’anno prossimo si terranno elezioni presidenziali nell’Artsakh. Che significato ha questo appuntamento politico?

Per ogni paese le elezioni sono un appuntamento di grande importanza. Non è certo la prima volta che i cittadini della repubblica sono chiamati alle urne, e in tutte le occasioni passate gli osservatori internazionali hanno potuto verificare che si è trattato di elezioni trasparenti, oneste e libere. Nel 2020 alzeremo ancora di più il livello di trasparenza democratica di tutto il processo elettorale.

Dopo mesi di relativa calma si rialza la tensione lungo la linea di contatto tra Artsakh (Nagorno Karabakh) e Azerbaigian. E gli azeri lasciano un caduto nella terra di nessuno.

L’Esercito di Difesa dell’Artsakh ha infatti respinto un tentativo di penetrazione in territorio armeno di soldati azeri. Ne dà notizia il ministero della Difesa che indica in un punto non precisato del settore sud orientale il luogo di azione nemica.

Il fatto, peraltro sembrerebbe documentato da telecamere di sorveglianza, è accaduto domenica 22 intorno alle 16,15 ora locale. Le forze azere sono state respinte indietro alle loro postazioni ma hanno lasciato in zona neutrale un caduto.

Il ministero della Difesa dell’Azerbaigian ha respinto le accuse armene circa un tentativo di penetrazione ma ha ammesso la perdita di un soldato, Ramin Abdulrahmanov. Questi si troverebbe in effetti nella terra di nessuno tra le opposte postazioni difensive al punto che gli azeri avrebbero chiesto l’intervento della Croce Rossa Internazionale per rimuovere il corpo. Nei suoi comunicati ufficiali Baku non ha fornito alcuna spiegazione riguardo la presenza del soldato in quella porzione di territorio neutrale.

Si tratta del primo grave episodio di violazione del regime di cessate-il-fuoco dopo mesi di relativa calma. Per la cronaca, nella giornata di lunedì 23 a New York, a margine dei lavori della Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si incontrano i ministri degli Affari esteri di Armenia e Azerbaigian.



Il 5 maggio 1994, a Bishkek capitale del Kirghizistan, venne firmato l’omonimo accordo di cessate il fuoco a conclusione delle ostilità nel Nagorno Karabakh.

Dopo due anni di guerra, 30.000 morti, almeno 50.000 feriti e centinaia di sfollati, le parti in causa convennero di cessare lo scontro armato.

Non fu un trattato di pace ma solo un patto di cessazione degli scontri (con efficacia a partire dal 12 maggio).

Venticinque anni dopo la repubblica del Nagorno Karabakh, nel frattempo divenuta repubblica di Artsakh attende di poter porre la parola fine alla guerra definita silenziosa, congelata ma che negli ultimi cinque lustri ha mietuto centinaia di vittime e conosciuto momenti di recrudescenza come nell’aprile del 2016 allorché le forze armate azere attaccarono le postazioni di difesa armene tentando in penetrare nel territorio dello Stato.

L’Azerbaigian persevera con una retorica improntata alla militarizzazione dello scontro, continua ad armarsi sempre di più e – nonostante il paziente lavoro diplomatico del Gruppo di Minsk dell’Osce – non sembra aver abbandonato l’idea di una soluzione finale di stampo bellico.

La piccola repubblica armena dell’Artsakh costruisce giorno dopo giorno la propria indipendenza statuale e mai e poi mai potrà essere amministrata da un governo azero.

L’unica soluzione è un riconoscimento formale!

Ci pare altresì doveroso ricordare come l’accordo di Bishkek venne firmato tra gli altri anche da Karen Baburyan, all’epoca presidente del Soviet del Nagorno Karabakh e per tale carica considerato il terzo Presidente della neonata repubblica. Quando oggi gli azeri dichiarano di non voler modificare il format negoziale e di non volere al tavolo delle trattative rappresentanti del governo di Stepanakert, dimenticano che proprio quell’accordo fu firmato da Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh.

Nessun cambio di format negoziale dunque! Ma solo la necessità di far decidere del suo futuro il popolo che più di ogni altro è interessato al negoziato.

East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.

 

 

Il Primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il Presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, si sono incontrati a Vienna per iniziativa del gruppo di Minsk dell’Osce.

Dopo gli incontri “informali” di Dushambe, San Pietroburgo e Davos avvenuti nei mesi scontri si tratta del primo meeting ufficiale tra il leader armeno e quello azero.

L’evento, tenutosi all’hotel Bristol della capitale austriaca e iniziato alle ore 11 locali, si è articolato in due parti: un primo incontro allargato ai ministri degli Esteri dei due Paesi (Mnatsakanyan e Mammadyarov) e ai co-presidenti del Gruppo di Minsk. Dopo una breve interruzione Pashinyan e Aliyev hanno avuto un incontro privato a porte chiuse durato quasi due ore al termine del quale sono rientrati nella sala anche i rispettivi ministri degli Affari esteri.

Complessivamente il meeting è durato tre ore e un quarto. Al momento l’Osce non ha ancora diramato un comunicato ufficiale né trapelano indiscrezioni sul contenuto dei colloqui.

Uscendo dalla sala al termine del colloquio, in risposta alla domanda di un giornalista, il premier armeno ha definito l’incontro “normale”.

«Lungo, saturo, efficace» questo è il modo in cui il co-presidente del gruppo di Minsk Stefan Visconti (Francia) ha descritto la riunione di Pashinyan-Aliyev durante un briefing con giornalisti che fanno parte della delegazione del primo ministro Nikol Pashinyan a Vienna.

COMUNICATO STAMPA GRUPPO DI MINSK DELL’OSCE

Vienna, 29 marzo 2019 – Il Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e il Primo Ministro della Repubblica di Armenia Nikol Pashinyan si sono incontrati oggi a Vienna per la prima volta sotto l’egida dei Co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE (Igor Popov della Federazione Russa, Stéphane Visconti di Francia, e Andrew Schofer degli Stati Uniti d’America). All’incontro hanno partecipato anche i ministri degli Esteri Zohrab Mnatsakanyan e Elmar Mammadyarov. Anche Andrzej Kasprzyk, il rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE, ha partecipato all’incontro. L’incontro si è svolto in un’atmosfera positiva e costruttiva e ha offerto ai due leader l’opportunità di chiarire le rispettive posizioni. Si sono scambiati opinioni su diverse questioni chiave del processo di risoluzione e idee di sostanza. I due leader hanno sottolineato l’importanza di costruire un ambiente favorevole alla pace e di intraprendere ulteriori passi concreti e concreti nel processo negoziale per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Ricordando la loro conversazione a Dushanbe, i leader hanno raccomandato di rafforzare il cessate il fuoco e migliorare il meccanismo di comunicazione diretta. Hanno anche concordato di sviluppare una serie di misure nel campo umanitario. Il primo ministro e il presidente hanno incaricato i loro ministri di incontrarsi nuovamente con i co-presidenti nel prossimo futuro. Hanno anche accettato di continuare il loro dialogo diretto.