Il manifesto, 8 ottobre 2019 di Yurii Colombo

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Torna la tensione. Mosca è nella posizione più scomoda: alleata dell’Armenia ma con interessi irrinunciabili in Azerbaigian

Torna alta la tensione tra Armenia e Azerbaigian i due paesi ex sovietici da sempre in conflitto per il controllo dell’enclave del Nagorno-Karabakh divenuta repubblica filo-armena indipendente dall’Azerbaigian nel 1991.

La contesa provocò una lunga guerra tra i due paesi tra il 1992 e il 1994 che costò la vita a oltre 50mila persone, segnata da pogrom e violenze inaudite sulla popolazione civile.

Dopo una pausa di quasi 3 anni degli scontri alle frontiere e una serie di incontri di pace a Minsk mai decollati veramente, la situazione è peggiorata drasticamente nelle ultime settimane. L’escalation sta avvenendo sullo sfondo di dichiarazioni estremamente dure da parte dei leader dei due paesi. In risposta alle parole del presidente armeno Nikol Pashinyan che ha affermato recentemente «il Karabakh è Armenia e punto», Ilham Aliyev, il suo omologo azero, ha risposto a muso duro qualche tempo dopo affermando alla riunione del Club di Valdai giusto l’opposto: «Il Karabakh è Azerbaigian, punto esclamativo!» Ma non stanno volando solo parole tra due paesi, ma già da agosto anche proiettili e scambi di salve di cannone.

La portavoce del ministero degli esteri armeno Anna Naghdalyan ha denunciato ieri una nuova escalation nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh, accusando la parte azera di «deliberato aggravamento della situazione». «A seguito di recenti incidenti, un soldato delle forze armate armene è morto e altri tre sono rimasti feriti», ha detto Naghdalyan, esortando Baku di «astenersi da qualsiasi azione provocatoria lungo il confine internazionale armeno-azero».

A sua volta, il ministero della difesa dell’Azerbaigian ha riferito che solo in un giorno, dal 4 al 5 ottobre, gli armeni avrebbero violato il cessate il fuoco più di 20 volte. E un soldato azero sarebbe stato ucciso negli scontri. La risoluzione n.853 adottata dal Consiglio di sicurezza Onu sul conflitto ha dato implicitamente ragione agli azeri contro le pretese armene, sostenute dalla Federazione russa, di staccare l’enclave e annettersela. Il 29 luglio 1993, in particolare, l’Onu confermava la «sovranità e integrità territoriale dell’Azerbaigian», condanna «il sequestro della regione di Agdam e di tutte le altre regioni occupate di recente della Repubblica dell’Azerbaigian» e chiedeva «il ritiro immediato, completo e incondizionato della partecipazione nel conflitto delle forze di occupazione». Tuttavia Pashanin intervenendo all’ultima sessione generale dell’Onu lo scorso 25 settembre, è tornata a gettare benzina sul fuoco su una questione rimasta per tanto tempo in stand-by.

«Le autorità azere non intendono risolvere questo conflitto. Invece, vogliono sconfiggere il popolo del Nagorno-Karabakh. Non vogliono scendere a compromessi. Il loro obiettivo è la vendetta dopo dei tentativi fallito di aggressione contro il popolo del Nagorno-Karabakh negli anni ’90 e 2016» ha detto il leader armeno. Nella partita si è subito infilato il presidente turco Erdogan, per note ragioni nemico giurato degli armeni, e schieratosi quindi subitaneamente con il leader azero. «È inaccettabile che il Nagorno-Karabakh e le aree circostanti, che sono il territorio dell’Azerbaigian, siano ancora occupate, nonostante tutte le risoluzioni adottate», ha replicato Erdogan.

A trovarsi nella posizione più scomoda ora è Putin. Da sempre la Russia ha basi militari in Armenia ed è alleata strategica di Yerevan. Tuttavia sin dal crollo dell’Urss, Lukoil e altre imprese petrolifere russe detengono lo sfruttamento di parte dell’oro nero che sgorga a Baku. Un affare da oltre 2,5 miliardi di dollari annui a cui Mosca non vuole rinunciare. A questo si aggiunge l’ormai stretta alleanza con la Turchia. Per questo il presidente russo ha moltiplicato i contatti con le parti in causa perché la tensione non scivoli inesorabilmente verso il conflitto armato.

Corriere della sera (6 luglio 2019), Antonia Arslan

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L’Artsakh è una terra antica e colta, provata dalla guerra con l’Azerbaigian. Anticipiamo una sintesi del contributo di Antonia Arslan per il nuovo numero di «Vita e Pensiero»

Non è facile parlare del Nagorno Karabakh — e neppure capirlo. Questo piccolo Paese aggrappato alle montagne del Caucaso, è davvero, infatti, un giardino segreto, come lo ha definito Graziella Vigo dopo averlo percorso in lungo e in largo scattando le sue preziose fotografie, parlando con la gente, annusandone i profumi e captando la sua misteriosa lunghissima storia, come la si respira in ogni angolo di questa terra. Non è facile: a cominciare dal nome, che significa «giardino nero» (un misto di due vocaboli, uno russo e uno turco, che non rispecchia la vera natura della regione, che infatti ufficialmente oggi si chiama Artsakh, un altro nome derivato da un termine dell’armeno antico, tsakh, che significa «legno»).

Legno, cioè boschi, foreste: questa parte del Caucaso orientale, che si estende per circa 11.500 chilometri quadrati, abbraccia e protegge l’Altopiano Armeno verso est, e comprende alcuni dei più antichi e durevoli insediamenti del popolo armeno. Appartenente alla famiglia indoeuropea, esso si era insediato in tutta la grande zona fra il Monte Ararat, il Caucaso e i tre grandi laghi di Van, Sevan e Urmià, verso il VII secolo a.C. La tribù armena che qui si stabilì ha messo radici che non sono mai state tagliate; la gente di qui ha combattuto per la propria terra, ha difeso una certa indipendenza, ha conservato perfino una classe nobiliare, i melik, che altrove è scomparsa. Il popolo dell’Artsakh non ha subito il trauma del genocidio del 1915 perché, come l’Armenia del Caucaso, non faceva parte dell’impero ottomano: per molti secoli rimasto sotto l’influenza persiana, col trattato di Gulistan del 1813 passò in potere dello zar di Russia, che nel 1828 riuscì ad annettersi tutta la Transcaucasia.

Questa terra isolata, ma fertile e ricca d’acque, costituiva da millenni un importante nodo di passaggio verso occidente. L’Artsakh si convertì al cristianesimo insieme al resto d’Armenia, e vi furono costruiti importanti monasteri. La capitale, Shushi, era nell’Ottocento una delle città più importanti del Caucaso, seconda solo a Tiflis, l’odierna Tbilisi, ed era conosciuta per la sua vivacissima vita economica e culturale. I suoi abitanti avevano stretti rapporti con il mondo russo e con quello occidentale, e molti giovani andavano a studiare all’estero.

E non solo gli uomini, anche le donne. Il 22 dicembre 1895, sul suo giornale «Il Mattino», Matilde Serao pubblica il resoconto di una conferenza tenuta all’Università di Vienna da una dottoressa in medicina che è — scrive — «discendente da un’antica famiglia principesca dell’Armenia». Si tratta di Margarit Melik Beglarian, appartenente a una delle più antiche famiglie dei melik dell’Artsakh. Il resoconto della conferenza è estremamente interessante. «Il mio Paese», dice Margarit, «è selvaggio e incivile, ma se voi andate in una tenuta vedrete quanto volentieri un possidente divida con i contadini il suo patrimonio e il suo tempo. Vadano pure maestre, medichesse e magari avvocatesse in quei luoghi e vedranno con quanta affabilità verranno accolte. La gente non dirà: “Questa è una donna e quindi comprende poco”. Io non conosco nessun proverbio armeno che dileggi l’inferiorità della donna. […] La donna armena non è per nulla da meno dell’uomo e, se anche talvolta le manca la cultura, la sua naturale forza d’animo è tale da farla ovunque oggetto di considerazione».

Tornando al nome: «Artsakh. Questo è il nome giusto, antico, quello armeno, e definisce questi territori dalla più remota antichità — ti dice la gente del posto — e risale a prima di quando diventarono parte dei domini del re Tigranmetz». Effettivamente Tigrane il Grande, nel I secolo a.C., fu l’armeno che arrivò a regnare su un estesissimo impero, che andava dal Mar Nero al Monte Ararat alle pianure d’Anatolia, giungendo fino alla Siria e alla Palestina. Quella fu la massima estensione della Grande Armenia; e di questo re gli armeni mantengono un ricordo divenuto leggendario: re Tigrane regnò molto a lungo e aveva il vezzo di costruirsi capitali. A Tigranakert, la sua capitale in loco, gli archeologi scavano da anni; a me è capitato di andarci in un pomeriggio di aprile nel 2015, durante il mio primo viaggio nel Paese.

Era l’inizio della nuova stagione. Il professor Hamlet Petrosyan, direttore degli scavi, ci invitò a visitare tutto, ma soprattutto l’appena riscoperta basilica paleocristiana. Sulle colline indugiava un tramonto di fuoco, e — come nelle favole — un cavallo solitario galoppava verso il sole. Mi sentii nel centro di un mondo antichissimo e tuttavia vitale, coraggioso. Eppure questa serenità laboriosa è una faticosa conquista dopo una guerra per la sopravvivenza non ancora finita: la pace fra l’Artsakh e l’Azerbaigian è ancora lontana, c’è soltanto — da più di vent’anni… — uno stato di tregua armata. Ma, nonostante la perdurante incertezza diplomatica, il Paese — abitato da circa 150.000 persone — lavora perché la sua indipendenza de factoprosegua e si rafforzi. La capitale attuale, Stepanakert, giace al centro di una vallata accogliente, poco lontana da Shushi, dove durante la guerra la cattedrale e gran parte delle case furono quasi completamente distrutte. Oggi è in piena ricostruzione.

È superfluo ricordare che l’area del Caucaso è — ed è sempre stata — di straordinaria complessità etnica e linguistica; tuttavia le cause della guerra del Nagorno Karabakh (oggi Artsakh) sono in realtà abbastanza semplici, se la si considera nella prospettiva delle attuali rivendicazioni di molte etnie circa il loro «spazio vitale», il territorio dove vivono e vogliono continuare a vivere in libertà. All’inizio del Novecento, gli armeni dell’impero ottomano furono spazzati via — dal 1915 in poi —, vittime del primo genocidio del secolo. Un certo numero di sopravvissuti trovò rifugio nell’Armenia caucasica, sotto la protezione della Russia zarista. Dopo la rivoluzione del 1917 si forma nel Caucaso una federazione transcaucasica, che dà origine a tre repubbliche indipendenti (Georgia, Armenia, Azerbaigian). Nel 1920 tuttavia anche la Transcaucasia cade nelle mani dei bolscevichi. Sarà Stalin a rimescolare le carte fra le tre nazioni, assegnando nel 1921 all’Azerbaigian il territorio del Karabakh, abitato per il 95% da armeni.

Questa situazione dura fino alla crisi finale dell’Urss. Dovunque ci sono minoranze, le diverse nazionalità rialzano il capo: anche in Karabakh. Nel 1988 avvengono scontri in diverse località fra azeri e armeni, che sfociano nella violenza di pogrom e massacri organizzati. Nel frattempo, nel caos legislativo del tramonto sovietico, i rappresentanti del soviet del Karabakh proclamano uno statuto di autonomia e infine l’indipendenza nel 1991. Nel gennaio 1992 cominciano i bombardamenti azeri. La guerra va avanti per due anni, con distruzioni massicce sul territorio dell’Artsakh, ma trovando un’inaspettata e decisa resistenza. Gli armeni hanno presente l’incubo del 1915, e sanno di combattere per la propria terra: fra alterne vicende, riescono a tenere il territorio.

La tregua (spesso purtroppo violata) fu firmata nel maggio 1994. A tentare un riavvicinamento delle posizioni lavora da anni il Gruppo di Minsk della Csce. Oggi, mentre in Azerbaigian si è consolidata una successione dinastica nella famiglia Aliyev, con un progressivo parallelo restringersi delle libertà di opinione e di critica, in Armenia la «rivoluzione di velluto» del 2018 ha portato al potere Nikol Pashinyan, con un forte programma di rinnovamento sociale e politico: speriamo! Ma io credo che della realtà esistente e del popolo fiero e gentile dell’Artsakh, avamposto orientale, davvero non ci si deve dimenticare.

Osservatorio Balcani e Caucaso (30 aprile 2019) di Armine Avetisyan

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Due villaggi sul lato armeno del Nagorno Karabakh tra i più colpiti durante la Guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016. Ora, non senza difficoltà, si assiste al rientro dei loro abitanti e alla ricostruzione. Reportage

Il 2 aprile 2016 è ricordato come l’inizio della cosiddetta Guerra dei quattro giorni, tra Nagorno-Karabakh e Azerbaijan. Come risultato di quella guerra vi furono più di cento vittime, grandi distruzioni e l’abbandono di centri abitati situati in prossimità delle operazioni militari. Sul lato del Karabakh, è stato il villaggio di Talish ad essere evacuato. Il 2 aprile le truppe azerbaijane riuscirono ad entrare nel villaggio dove, in quel momento, risiedevano numerosi civili. I militari dell’Azerbaijan mutilarono e uccisero Marusya Khalapyan, nata nel 1924, suo figlio Valera e la moglie di lui Razmela.

Gli altri abitanti del villaggio fuggirono e si nascosero per giorni nei dintorni e solo quando venne dichiarato il cessate il fuoco rientrarono a Talish trovando uno scenario terribile: il villaggio era distrutto, più di metà delle case erano demolite ed inabitabili, molte macchine e macchinari agricoli erano stati bruciati e centinaia di capi di bestiame erano stati uccisi.

Mataghis

Situazione simile era quella di Mataghis, presso Talish. Le case severamente danneggiate e i colpi di artiglieria che cadevano ogni giorno impedirono a lungo ai suoi residenti di rientrare. Narek Sargsyan è da 8 anni che vive a Mataghis, nel nord del Nagorno-Karabakh. 8 anni fa vi arrivò per aiutare un amico a ristrutturare la sua casa ma poi, innamorato della natura di questo luogo, decise di rimanervi a vivere.

“Quando arrivai per la prima volta qui pensavo che di tanto in tanto sarei ritornato a Gyumri, seconda città dell’Armenia, di cui sono originario. Ma dopo quanto accadde nell’aprile 2016 mi sono reso conto non avrei mai più abbandonato Mataghis. Dopo la guerra guardo al mondo in modo diverso e guardo a Mataghis in modo diverso”, afferma Sargsyan.

Mataghis, nella regione di Martakert, è uno dei luoghi più pericolosi sul versante del Karabakh. Nella guerra degli anni ’90, Mataghis, assieme a decine di altri insediamenti nelle vicinanze, venne conquistato dalle truppe dell’Azerbaijan e parzialmente distrutto. Nell’aprile del 1994 venne liberato e i suoi residenti tornarono lentamente alle loro case incominciando la ricostruzione.

Il secondo grave attacco al villaggio avvenne nell’aprile del 2016. Venne bombardato per giorni. Ciononostante i suoi abitanti sono riusciti per due volte a superare l’orrore della guerra e sono ripartiti a ricostruire le loro vite.

Attualmente Mataghis ha 540 residenti di cui 245 sono bambini e ragazzini sotto i 17 anni. “Di fatto è ancora in corso una guerra non dichiarata. Spesso sentiamo colpi di arma da fuoco sparati dal nemico. Per fortuna senza morti. Siamo così abituati a sentire spari che senza per noi sarebbe troppo tranquillo”, afferma Sargsyan. Dopo i fatti dell’aprile 2016 quasi tutti sono rientrati alle proprie case e i lavori di ristrutturazione sono quasi terminati.

Talish

La vita è tornata anche a Talish, epicentro della guerra dell’aprile 2016. Tre anni fa anche questo villaggio venne quasi completamente distrutto. I più anziani, le donne e i bambini lasciarono il villaggio. “Nei giorni della guerra di aprile abbiamo rapidamente portato le donne ed i bambini via dal villaggio. Era troppo pericoloso. Per un lungo periodo vivemmo solo noi uomini qui. Quando necessario, diventavamo soldati. Se serve difenderemo le nostre terre con i denti”, ribadisce Petros Abrahamyan.

“Portai mia moglie e i miei figli in un posto sicuro. Poi tornai in municipio per organizzare lo sfollamento della popolazione. Poi, quando mi resi conto che la situazione peggiorava, portammo via tutti gli abitanti del villaggio”, ricorda Vilen Petrosyan, sindaco di Talish.

Attualmente molto è in ricostruzione e ovunque vi sono cantieri aperti. La scuola del paese, l’asilo e il centro culturale sono già a buon punto. “Sono state risistemate numerose case e sono stati ostruiti nuovi appartamenti: sono dodici gli edifici in ricostruzione e dovrebbero essere consegnati per giugno o luglio”, afferma il sindaco aggiungendo che non tutti gli abitanti originari sono ancora rientrati a Talish ma che è un processo che sta arrivando a compimento.

Sono 22 le case del villaggio ricostruite grazie ai finanziamenti messi a disposizione dalla Hayastan All-Armenian Fund, fondo istituito con decreto del presidente dell’Armenia nel 1992 la cui missione è quella di unire armeni in Armenia e della diaspora per superare le difficoltà del paese e aiutare a stabilire uno sviluppo sostenibile in Armenia e in Nagorno Karabakh. Il programma, “ricostruzione di Talish” del Fondo è stato lanciato nel maggio del 2018 con un investimento sino ad ora di 506 milioni di drams (equivalente di circa 920.000 euro).

East Journal (11 aprile 2019) di Aleksej Tilman

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Lo scorso 29 marzo si è svolto a Vienna un incontro ufficiale tra il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev. È la quarta volta che i due leader si sono parlati di persona
da quando Pashinyan è salito in carica come conseguenza della cosiddetta Rivoluzione di velluto di un anno fa.

Il colloquio nella capitale austriaca ha un ruolo simbolico rilevante. A
differenza dei tre precedenti, si è svolto sotto l’egida del Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la struttura di lavoro che dal 1992 è incaricata della risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh.

Una questione irrisolta

Il controllo di questo remoto territorio montuoso costituisce il pomo della
discordia nelle relazioni tra Baku e Erevan fin dall’epoca sovietica. Negli
anni venti, la demarcazione staliniana dei confini aveva visto la regione, con una popolazione a maggioranza armena, diventare una repubblica autonoma all’interno della RSS azera. Una guerra tra il 1988 e il 1994, costata 30 mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati, ha portato alla secessione dall’Azerbaigian. Oggi il Nagorno-Karabakh è uno degli stati non riconosciuti nell’ex territorio sovietico, ma la sua indipendenza si regge sul supporto finanziario, politico e militare dell’Armenia.

L’accordo di cessate il fuoco di Bishkek del 1994 viene frequentemente
violato dalle due parti e le schermaglie sono degenerate in un conflitto aperto – la cosiddetta guerra dei quattro giorni– nell’aprile del 2016.

Un nuovo inizio?

Nel comunicato stampa dell’OSCE si parla dell’atmosfera “positiva e
costruttiva” che ha caratterizzato l’incontro del 29 marzo. I due presidenti si
sono impegnati a rafforzare il cessate il fuoco e a mantenere una linea diretta di dialogo.

Si tratta del consueto linguaggio diplomatico, i negoziati hanno prodotto
pochi risultati tangibili nel corso degli ultimi venticinque anni e la
situazione non potrà, verosimilmente, essere risolta nel breve periodo.

Indubbiamente però, l’avvento di Pashinyan al potere in Armenia ha
influenzato la dinamica dei processi di pace. Al contrario dei
predecessori Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, l’attuale primo ministro non è parte del cosiddetto clan del Karabakh, il gruppo di potere nativo della regione separatista che ha dominato la scena politica del paese nell’ultimo ventennio. Ciò non implica una maggiore apertura di Pashinyan al  dialogo con Baku, ma sicuramente un approccio, a livello personale, diverso alla questione.

Nonostante lo scorso gennaio il premier abbia annunciato un nuovo
corso nella politica di risoluzione del conflitto
, non ha specificato
in cosa esso consista precisamente. Pashinyan ha, al contempo, rinnegato la
linea “territori in cambio di pace”, promossa da Levon Ter-Petrosyan, primo presidente – tra il 1991 e il 1998 – dell’Armenia post-sovietica. In base a questa dottrina, storicamente la più efficace sul tavolo delle trattative, la pedina di scambio per ottenere una risoluzione permanente del conflitto sarebbe il ritiro delle forze armene da quei territori sotto il loro controllo, ma che non erano parte della regione autonoma del Nagorno-Karabakh dell’epoca sovietica.

Se la posizione di Erevan è ambigua, quella di Baku, rimasta invariata negli
anni, è stata chiaramente enunciata dal presidente Aliyev alla TASS: “la priorità dei negoziati deve essere il ritiro delle forze armene dai territori internazionalmente riconosciuti come parte dell’Azerbaigian”. L’esclusione delle autorità de facto del Karabakh dal tavolo delle trattative è, poi, considerata positivamente sulle rive del Caspio, dove l’obbiettivo è sempre stato quello di un dialogo diretto con l’Armenia a sottolinearne la responsabilità della situazione.

La riapertura delle trattative di pace non deve destare false illusioni. Lo sfondo della fotografia ufficiale dell’incontro del 29 marzo rappresenta una metafora accurata della situazione: due elefanti legati tra loro che tirano in direzioni opposte. In modo simile, Armenia e Azerbaigian portano avanti due posizioni inconciliabili tra di loro: l’affermazione del principio di
autodeterminazione dei popoli
 da parte armena, contro quello
di integrità territoriale, sostenuto dagli azeri. Gli incontri tra capi di stato possono portare a risultati rilevanti nel breve periodo, quali la diminuzione delle schermaglie sulla linea di fronte e la prevenzione di una nuova escalation come quella del 2016. Le belle parole e le dichiarazioni di intenti non sono, però sufficienti per una risoluzione permanente del conflitto.

 

 

Osservatorio Balcani e Caucaso (3 apr 19) di Knar Babayan

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“Per noi, creare significa sopravvivere. A volte evitiamo addirittura di comprare determinate cose, così abbiamo soldi per la nostra arte”, afferma Satenik Hayiryan. Satenik è una stilista e vive con il marito Serob Mamunts, un ceramista. Questa coppia di appena 28 anni si è preposta un obbiettivo ambizioso: aiutare la rinascita della vita artistica nello stato non riconosciuto del Nagorno Karabakh. Tuttavia, per molti abitanti in questo territorio montuoso, che è tecnicamente ancora in guerra con il vicino Azerbaijan, le priorità restano la sicurezza e la difesa nazionale.

Serob e Satenik si sono incontrati all’università e si sono sposati durante l’ultimo anno dei loro studi, a 23 anni. La coppia si è trasferita per lavoro diverse volte nei primi 6 anni di matrimonio; Serob proviene da Martakert, nell’estremo nord del Karabakh, solamente 4-5 chilometri dalla linea del fronte.

Entrambe le loro vite sono state toccate dal conflitto. Serob ha perso il padre durante la feroce guerra che è infuriata in quest’area negli anni ’90, guerra a cui attribuisce la responsabilità di aver cambiato profondamente la sua prospettiva sulla vita e sulla sua passione più grande: l’arte. La moglie di Serob, Satenik, proviene dal villaggio di Sghnakh nel sud del Karabakh. Dopo il matrimonio si è trasferita nella città natale di Serob per due anni, dove ha trovato lavoro insegnando arte in una scuola locale. Nell’aprile 2016 il conflitto è scoppiato nuovamente e quest’area di frontiera ha subito pesanti bombardamenti. Satenik, allora incinta del loro primo figlio, è stata evacuata da Martakert il 2 di aprile: “Quei fatti hanno cambiato la mia visione del mondo, nonostante non abbia ancora creato qualcosa a tema militare”, sottolinea Satenik. “La guerra è un argomento molto sensibile e ognuno gli si deve rapportare con cautela”. Dopo quest’esperienza, Satenik ha giurato di rimanere nel Karabakh, che ritiene essere la propria casa.

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Vaticannews.va (27 mar 19) di Giancarlo Vella

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Riprendono i colloqui tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, la regione a maggioranza armena, contesa tra i due Paesi ex sovietici. La questione è da sempre al centro delle frizioni tra Yerevan e Baku e negli anni ’90 ha anche causato un sanguinoso conflitto

Il Presidente azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan si incontreranno a Vienna il 29 marzo prossimo, per discutere una soluzione alla questione del Nagorno-Karabakh, che in passato ha dato vita anche a scontri armati tra Yerevan e Baku. L’incontro è promosso dal gruppo dei mediatori di Minsk dell’Osce formato da Russia, Francia e Stati Uniti. L’obiettivo è porre fine ad una contesa che va avanti da molti anni e che non ha mai trovato una via d’uscita.

Un conflitto nato ai tempi dell’Unione Sovietica

Emanuele Aliprandi, esperto dell’area, autore di diversi volumi sulla questione ed esponente dell’Iniziativa Italiana per il Nagorno Karabakh, ricorda ai nostri microfoni come la vicenda nasce ai tempi dell’Unione Sovietica, quando Stalin assegnò il territorio della regione, ad alta maggioranza armena e cristiana, al controllo dell’Azerbaigian. Quando nel 1991, alla dissoluzione della potenza sovietica, quest’ultimo Paese dichiarò la secessione e l’indipendenza, a sua volta il Nagorno-Karabakh si autoproclamò indipendente, scattò allora la risposta armata di Baku, alla quale si oppose il piccolo esercito locale. Da allora la questione va avanti con un conflitto a bassa intensità, mentre il Nagorno non ha ancora ricevuto alcun riconoscimento dalla comunità internazionale.

Speranze di pace per il Nagorno-Karabakh

Su questi colloqui, ennesima tappa di un lento processo di avvicinamento tra l’Armenia, che tratta per conto della provincia contesa, e l’Azerbaigian, puntano le speranze della comunità internazionale – sottolinea Emanuele Aliprandi – affinché vengano riconosciute le istanze di entrambi i contendenti e, soprattutto, si raggiunga pace e tranquillità per la popolazione del Nagorno-Karabakh, sino ad oggi senza identità di fronte al mondo.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso del 25 gennaio 2019, di Marilisa Lorusso

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I recenti incontri diplomatici tra Armenia e Azerbaijan aprono spiragli di fiducia nei progressi per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh

Non soffiano ancora venti di pace sul processo di risoluzione e pacificazione del conflitto in Nagorno Karabakh, ma sicuramente aria di novità. Il neo eletto governo di Nikol Pashinyan, fresco della conferma dalle urne e del consenso che lo sostiene sta tentando un avvicinamento cauto a Baku, che gli fa sponda.

Il lavorio diplomatico

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliev si sono incontrati il 22 gennaio scorso a Davos, nell’ambito del World Economic Forum, per parlare del conflitto in Karabakh, regione secessionista armena sottrattasi dal 1994 al controllo di Baku. Non è la prima volta che a latere di un evento diplomatico multilaterale i due si ritagliano un incontro rigorosamente bilaterale. Era già successo a Dushanbe, durante la riunione del CIS, e poi di nuovo a Pietroburgo, in un’analoga circostanza. E poi ci sono stati i numerosi incontri dei numero uno dei rispettivi ministeri degli Esteri.

Dall’assunzione dell’incarico il ministro degli Esteri armeno Zohrab Mnatsakanyan ha incontrato l’omologo azerbaijano Elmar Mammadyarov quattro volte, di cui l’ultima volta a Parigi il 16 gennaio scorso. Un incontro durato ben quattro ore e definito molto proficuo dai copresidenti del Gruppo di Minsk per la regolamentazione del conflitto congelato dal 1994, cioè Francia, Russia e Stati Uniti. Si leggono nel comunicato stampa  parole che non si sentivano pronunciare da più di un decennio in riferimento alle posizioni delle parti: “I ministri hanno discusso un’ampia gamma di questioni relative alla risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh e concordato sulla necessità di prendere provvedimenti concreti per preparare le popolazioni alla pace. Durante le riunioni, i copresidenti hanno esaminato con i ministri i principi e i parametri chiave per la fase attuale del processo di negoziazione […] e hanno preso in considerazione i prossimi passi verso un possibile vertice tra i leader dell’Azerbaijan e dell’Armenia con lo scopo di dare un forte impulso alla dinamica dei negoziati”.

Quindi una valutazione delle proposte avanzate finora, la pianificazione del futuro lavorio diplomatico al massimo livello politico, e – finalmente e forse – la moderazione di quella propaganda nazionalista e violenta che ha reso le popolazioni ostili a qualsiasi compromesso, senza il quale nessuna pace può essere raggiunta. Più volte, proprio sulle pagine di OBC Transeuropa, è emerso come la questione del linguaggio dell’odio stia contribuendo attivamente al deterioramento della sicurezza e delle prospettive di pace, ad esempio nei due articoli Nagorno Karabakh: il linguaggio dell’odio e Arzu Abdullayeva: donna di pace tra Azerbaijan e Armenia.

Le reazioni

Nel contesto di relazioni internazionali tese e complesse, un segno positivo in un’area di così grandi criticità è stato accolto con viva soddisfazione e speranza. Ed è proprio il Segretario Generale ONU António Guterres ad aver commentato  con una sua dichiarazione pubblica il 17 gennaio il lavoro diplomatico in corso elogiando il costante impegno delle parti a trovare una soluzione negoziata e pacifica al conflitto e accogliendo con particolare favore l’accordo dei ministri azerbaijano e armeno sulla necessità di adottare misure concrete per preparare le popolazioni alla pace. La dichiarazione della massima carica dell’ONU è un tassello importante per capire quanto il processo in corso possa essere qualcosa di sostanziale.

Alle parole di Guterres hanno fatto seguito le dichiarazioni europee. Il Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso Meridionale Toivo Klaar ha scritto sul suo profilo twitter che “preparare le popolazioni per la pace è fondamentale e l’UE è impegnata a sostenere questo processo”.

Lo European Union External Action Service  di Federica Mogherini ha ribadito la posizione dell’Unione e l’importanza della questione del Karabakh per tutta la regione, sottolineando che tutti trarrebbero beneficio da una pace duratura che contribuirebbe a consentire alla regione del Caucaso meridionale di realizzare il proprio potenziale.

Se la comunità internazionale è unanime nell’accogliere la possibilità di costruire la pace, il tema delle concessioni necessarie al raggiungimento di un compromesso ha acceso il dibattito a livello nazionale. In Armenia sono i Repubblicani in particolare a punzecchiare il governo. Il vice-presidente del partito Armen Ashotyan dal suo profilo Facebook ha posto cinque domande al nuovo governo, accusandolo già di aver tradito le promesse fatte, in particolare quella di riportare le autorità de facto del Nagorno Karabakh al tavolo negoziale, dando così legittimazione politica internazionale alla loro esistenza.

Un campo minato

Che costruire la pace in Nagorno Karabakh e fra Armenia e Azerbaijan non sia una passeggiata è evidente, e non solo per le dichiarazioni dell’opposizione politica interna nei due paesi interessata ovviamente a screditare l’azione di governo su un tema così avvertito e delicato. La fiducia fra i due paesi passa sotto il fuoco incrociato, letteralmente: il cessate il fuoco viene violato quotidianamente lungo una linea di contatto fra eserciti che ormai si insinua entro i confini di stato riconosciuti, tra Armenia ed Azerbaijan, e non solo lungo la linea che demarca il confine de facto del Karabakh. Sono state 180 le violazioni del cessate il fuoco registrate dalle autorità della regione secessionista  solo dal 13 al 19 gennaio di quest’anno, corrispondenti ad una pioggia di 1300 proiettili, e nel solo weekend del 19 gennaio il ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha registrato una settantina di violazioni  . E questo è considerato un periodo di netta distensione militare.

Un campo minato mai sanato, il Karabakh, anche in questo caso letteralmente. Se si continua a sparare, si continua anche a morire o rimanere feriti per le mine disseminate trent’anni fa. L’ultimo caso il 16 gennaio scorso quando Arman Mikaelyan, residente a Tavush, ha perso una gamba a causa di una mina  .

Una diffidenza che passa non solo per il fuoco, ma anche per tutta una serie di misure restrittive. Sono chiusi ad esempio i confini tra Armenia e Azerbaijan ed è limitata la libertà di movimento, con un numero crescente di soggetti coinvolti, incluse cittadinanze terze. È di questi giorni poi la polemica fra Russia e Azerbaijan riguardante cittadini russi di origine armena che non sarebbero stati ammessi nel paese. La Russia ha denunciato  una violazione della normativa vigente per motivi di discriminazione etnica. L’Azerbaijan ha risposto  che a fronte di numerosi russi regolarmente accolti non accetta né critiche né ultimatum. Toni inusitatamente ostili fra i ministeri degli Esteri dei due paesi che dimostrano come il vecchio conflitto si innesti in dinamiche tutte attuali e contribuisca a estendere l’area di tensione.

Un campo minato da bonificare, e una strada verso la pace che è tutta in salita. Ma – dopo una decade in cui si è parlato più di guerra che di pace – pare che almeno su questa strada si stia provando a incamminarsi.

Storia verità”, 6 gennaio 2019 di Emanuele Aliprandi

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Alla base dell’irrisolto contenzioso sulla regione del Nagorno Karabakh (Artsakh) non vi è solo la secolare contrapposizione fra il mondo turco e quello armeno. Breve analisi delle ragioni del conflitto e attuali strategie politiche dei soggetti in campo.

1993. La Turchia chiude il confine con la vicina Armenia. Alla base di tale unilaterale decisione non sta l’irrisolta disputa con gli armeni per il riconoscimento del genocidio del 1915 ma (anche) il conflitto che da un paio di anni sconvolge, poche decine di chilometri più a est, la piccola regione del Nagorno Karabakh. Un territorio prevalentemente montuoso di circa 4.400 km2, l’antica provincia armena di Artsakh, per il quale si fronteggiano, senza esclusione di colpi e in un crescendo di violenza che interessa in primo luogo la popolazione civile, armeni e azeri.

Non è questa la sede per una approfondita disamina storica delle vicende del Caucaso meridionale; limitiamoci soltanto a considerare l’origine del contenzioso che risiede soprattutto nella decisione politica di Stalin del 1923 di assegnare – contrariamente alle indicazioni del Comitato Caucaso – il Karabakh Montuoso e il Nakichevan alla RSS Azera, nonostante che questi territori fossero abitati prevalentemente da armeni (rispettivamente il 95% e il 60% della popolazione). Il Nakichevan, confinante con l’Armenia, si svuotò rapidamente mentre il Karabakh (che era un’enclave armena in territorio azero) rimase etnicamente compatto, nonostante i tentativi di ripopolamento compiuti negli anni da Baku.

Con lo sfaldarsi dell’Unione Sovietica – la cui unità comincia a venire meno non con la caduta del muro di Berlino, ma con i violenti pogrom anti armeni di Sumgait in Azerbaigian (febbraio 1988): persecuzioni che sanciscono il distacco dal centralismo moscovita – riprendono vigore le aspirazioni degli armeni del Nagorno (Montuoso) Karabakh e al tempo stesso cresce la tensione fra le parti in campo.

Il 30 agosto 1991, il Soviet Supremo azero vota per il distacco dall’Urss e proclama la nascita della nuova repubblica di Azerbaigian. La decisione, che segue quella analoga di altre repubbliche socialiste sovietiche, si trasforma tuttavia in un inaspettato regalo per gli armeni del Nagorno Karabakh che, tre giorni dopo, in una seduta congiunta del Soviet regionale (il Karabakh aveva status di oblast ossia Regione Autonoma) e di quelli distrettuali, vota la secessione dall’Azerbaigian e la contestuale proclamazione della Repubblica del Karabakh Montuoso-Artsakh.

La decisione viene presa sulla base della legge sovietica del 3 aprile 1990 (“Norme riguardanti la secessione di una repubblica dall’Urss”) che consente alle regioni autonome etnicamente definite di distaccarsi dalla repubblica nella quale erano inglobate qualora non intendessero seguire il medesimo processo di separazione.

In buona sostanza, tra il 30 agosto e il 2 settembre 1991, si creano due distinte entità statali: la repubblica di Azerbaigian che si stacca dall’Urss e quella del NK che decide di non seguirla. Quando gli azeri si accorgono del clamoroso errore politico commesso e provano a rimediare abolendo lo status di “regione autonoma” al Karabakh, è ormai troppo tardi. Nel mese di novembre, è la Corte Costituzionale di Mosca a sentenziare che Baku non ha più alcun potere decisionale in materia, convalidando quindi quel processo democratico di autodeterminazione che il 10 dicembre successivo sarà confermato dal referendum popolare, seguito il 26 dello stesso mese dalle prime elezioni politiche. Il 6 gennaio 1992 (Natale armeno), nasce ufficialmente la repubblica, e il 30 gennaio le forze armate azere sferrano l’attacco militare al nuovo stato armeno.

Ne segue una sanguinosa guerra al termine della quale si conteranno trentamila vittime, centinaia di migliaia di sfollati (quattrocentomila armeni sono scappati nel frattempo dall’Azerbaigian, e ottantamila azeri hanno fatto il percorso inverso), la distruzione di case e infrastrutture. I partigiani armeni sono destinati alla sconfitta certa: pochi e male equipaggiati, non hanno neppure una divisa ufficiale e per riconoscersi, e sono costretti a dipingere una croce bianca cristiana sulle tute mimetiche e sui pochi mezzi a loro disposizione. Ciononostante, riescono a vincere. Gli azeri sono, infatti, dilaniati da faide politiche interne, e la conquista armena della roccaforte di Shushi (dalla quale gli azeri bombardavano la sottostante capitale Stepanakert) e del corridoio di Lachin (striscia di territorio azero che separava il NK dall’Armenia) consentono di ribaltare le sorti del conflitto. I partigiani armeni formano l’Esercito di Difesa del NK, arrivano volontari dalla Diaspora (fra i quali lo statunitense Monte Melkonian, che contribuirà in maniera decisiva ai successi militari, riorganizzando gli improvvisati reparti di autodifesa), il rinato collegamento con l’Armenia alimenta un flusso di aiuti e risorse.

Nel 1993, gli azeri sono in rotta e gli armeni, poco alla volta riescono a liberare tutta l’ex oblast sovietica e a conquistare nuovi territori: in primo luogo quelli contigui all’Armenia sì da assicurarsi la protezione alle spalle; oltre a ciò si spingono anche verso est e sud. Perdono la regione di Shahoumian (che Gorbaciov con la “Operazione Anello” ha dearmenizzato) ma conquistano la città di Agdham e poi, in successione, Fizouli, Jebravil, Gubatly e Horadiz con una avanzata che sembra inarrestabile. A fine 1993, gli armeni controllano poco più di undicimila chilometri quadrati (corrispondenti grosso modo all’antica regione di Artsakh) rispetto ai 4400 originari. Si dice che possano arrivare fino a Baku. Ma si fermano.

La Turchia ha chiuso la frontiera con l’Armenia (unico caso di blocco dei confini per solidarietà con una terza parte…) e soprattutto ha allertato il suo imponente esercito: gli armeni capiscono e, stremati dal conflitto, si fermano. Nel maggio del 1994 rappresentanti della repubblica di Armenia, dell’Azerbaigian e del Nagorno Karabakh-Artsakh firmano a Biskek (Kirghizistan) un accordo di cessate-il-fuoco.

Venti anni dopo sono sostanzialmente due i processi in corso: innanzi tutto il progressivo consolidamento della statualità de facto della piccola repubblica del Nagorno Karabakh (150.000 abitanti) accompagnato da un miglioramento delle condizioni economiche, delle infrastrutture e da riconoscimenti internazionali di secondo livello (membri di stati federati negli Usa, in Australia, da ultimo il Parlamento basco); dall’altro una costante tensione lungo la linea di demarcazione con l’Azerbaigian e lungo la frontiera tra questo e l’Armenia.

I negoziati, inquadrati nell’ambito del format del Gruppo di Minsk dell’Osce, non sono riusciti ancora a portare le parti alla firma di un definitivo trattato di pace.

L’Azerbaigian, dove da due dinastie il potere è controllato in modo autoritario dalla famiglia Aliyev, punta sull’orgoglio nazionale e sulla armenofobia, cavalcando il sogno della conquista militare della regione con un occhio ai rapporti internazionali (gestione delle risorse energetiche) e l’altro ai problemi interni (nella ultima classifica sulla libertà di informazione nel mondo il Paese è al 163° posto su 180 stati); dal canto suo l’Armenia non intendere cedere le posizioni guadagnate sul campo e sia pure non essendosi apertamente dimostrata contraria ai “Principi di Madrid” (una sorta di exit strategy varata dall’osce che prevede da un lato il riconoscimento della statualità del Nagorno Karabakh ma limitata ai confini del vecchio oblast sovietico sia pure con il mantenimento di una fascia di protezione tra questo e l’Armenia) non può accettare alcuna risoluzione del contenzioso che non preveda preliminarmente il riconoscimento dello status della piccola repubblica armena.

In questo contesto di incertezza, il diritto di autodeterminazione raggiunto dal NK attraverso un percorso democratico e legale rischia di essere costantemente minato da violazioni dell’accordo di cessate-il-fuoco che si fanno via via sempre più frequenti e gravi e che provocano alcune decine di morti l’anno da ambo le parti. Un cosiddetto “conflitto congelato” che è in realtà un vulcano pronto a esplodere con tutte le gravissime conseguenze, sia politiche che economiche, non solo per la regione ma per l’intero sistema europeo.

A premere sull’acceleratore della tensione è ovviamente l’Azerbaigian preoccupato che il passare del tempo consolidi la statualità dei rivali e porti all’inevitabile riconoscimento internazionale.

In questo contesto la posizione della Turchia è stata altalenante; se da un lato Ankara – storico e fraterno alleato degli azeri – ha sempre appoggiato le rivendicazioni di Baku e fornisce un supporto di assistenza tecnica e militare che è andato crescendo negli ultimi anni, dall’altro ogni suo (sfumato) tentativo di avvicinamento allo storico rivale è stato bacchettato dallo stesso Azerbaigian impedendo di fatto lo sviluppo di quella politica estera “zero problemi con i vicini”) che negli anni passati il governo turco ha cercato con difficiltà di portare avanti.

Accenni alla possibilità di una riapertura del confine con l’Armenia (soluzione sollecitata soprattutto dalle province orientali turche che soffrono l’isolamento commerciale) hanno incontrato il fermo monito dell’alleato azero. Sicché, in concomitanza del centenario del genocidio armeno, la Turchia di Erdogan è andata collocandosi su posizioni ancora più radicali nei confronti degli armeni, chiudendo apparentemente le porte a ogni possibilità di dialogo.

È altresì evidente il suo tentativo di inserirsi nel processo di negoziato del Gruppo di Minsk al punto che l’Azerbaigian ha chiesto la sostituzione del co-presidente in quota Francia (accusata di parteggiare per gli armeni) con uno di espressione turca; ma anche di creare nuovi formati di negoziato, come accaduto nei mesi passati all’interno dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa dove la possibilità di “indirizzare” i singoli parlamentari è più agevole.

È evidente il peso di un Paese, membro nato, nell’attuale criticità del contesto mediorientale e quello dell’Azerbaigian che trae dal petrolio non solo il proprio sostentamento economico ma anche la forza politica di pressione su Russia, Stati Uniti ed Europa alimentata anche grazie a quella cosiddetta “politica del caviale” (sinonimo di corruzione), ormai entrata di fatto nel vocabolario diplomatico internazionale.

E tuttavia la forza dirompente del petrolio, se da un lato è una sorta di assicurazione per Baku, dall’altro ne vincola i movimenti futuri: giacché infatti una guerra nella regione avrebbe effetti devastanti a cominciare dalle pipe line che portano gas e greggio nel vecchio continente e che in caso di conflitto sarebbero inevitabilmente coinvolte con il rischio di lasciare l’Europa al freddo e al buio.

Si impone dunque la necessità di un soluzione politica che veda finalmente riconosciuto il diritto ai centocinquantamila armeni del Nagorno Karabakh-Artsakh a vivere liberi, a casa propria, in uno stato che già di fatto è pienamente organizzato all’interno di una società civile che – riportano le organizzazioni internazionali di settore – ha profili di democrazia superiori a tutti gli altri soggetti in campo.

Atteso che è impensabile e impraticabile qualsiasi altra soluzione, l’Europa, l’Italia, devono avviare una politica di progressivo riconoscimento del Nagorno Karabakh finalizzata alla stabilità della regione; non si vede per quale ragione gli imponenti sforzi prodotti dalla politica europea per vedere riconosciuta la statualità del Kosovo o del Sud Sudan (etnicamente molto meno compatti del Karabakh Montuoso) non possano essere impiegati anche a favore di una piccola terra abitata da un grande popolo i cui valori culturali sono alla base delle radici della nostra Europa.

Bibliografia italiana

  • E. Aliprandi, Le ragioni del Karabakh, &MyBook (2010)
  • E. Aliprandi, Karabakh, urlo senza fine, in Corgnati-Volli (a cura di), Il genocidio infinito, Guerini e Associati (2015)
  • N. Hovhannisyan, Il problema del Karabakh, Ed. Studio 12 (2010)
  • P. Kuciukian, Giardino di tenebra, Guerini e Associati (2003)
  • M. Melkonian, Una vita per la libertà, Edizioni Clandestine (2008)
  • N. Pasqual, Armenia e Nagorno Karabakh, Guide Polaris (2010)
  • S. Shahmuradian, La tragedia di Sumgait, Guerini e Associati (2012)
  • Sul web, in italiano:
  • https://www.karabakh.it

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso del 9 novembre 2018

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“Inquadrando la pace” è il primo studio su ampia scala in merito alle attitudini rispetto al conflitto in Nagorno Karabakh dalla recrudescenza delle ostilità avvenute nell’aprile 2016 nella cosiddetta “Guerra dei 4 giorni”.

Lo studio ha esaminato le visioni “dal basso” in merito al Nagorno Karabakh di chi vi vive e tra le comunità residenti invece in Azerbaijan e Armenia. Tra le persone prese in considerazione anche sfollati interni e coloro i quali abitano vicino alla linea del fronte.

Dallo studio è emerso che tra coloro i quali hanno vissuto direttamente le conseguenza degli scontri armati – le comunità che vivono nei pressi del fronte e della linea del cessate il fuoco e chi è stato coinvolto direttamente nel conflitto – vi è maggior sostegno ad una riconciliazione con “l’altro”.

“Sono persone che capiscono l’importanza del risolvere questo conflitto e che possono adottare passi concreti a favore delle iniziative di costruzione della pace”, sottolinea Carey Cavanaugh, a capo del consiglio direttivo di International Alert, ed ex co-coordinatore del Gruppo di Minsk dell’OSCE.

Il Gruppo di Minsk dell’OSCE, guidato da Russia, Francia e Stati Uniti ha operato da mediatore sul conflitto in Nagorno-Karabakh sin dal 1992. “Più le persone vivono lontane dal fronte più parlano di patriottismo”, si afferma nel report.

(…)

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Fonte: East Journal  del 5 luglio 2018,  di Aleksej Tilman

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Il 26 giugno si è celebrato a Baku il centesimo anniversario della nascita delle forze armate della Repubblica dell’Azerbaigian. Nel corso della parata militare hanno sfilato per le strade della capitale i nuovi armamenti dell’esercito azero, un avvertimento sul fatto che, come ha sottolineato anche il presidente Ilham Aliyev, non è stata trovata una risoluzione del conflitto in Karabakh che è, a tutti gli effetti, ancora in corso.

Gli analisti armeni hanno notato, in particolare, notato la presenza di nuovi missili tattici e anticarro che potrebbero rappresentare un pericolo per le difese armene, inducendo Erevan a investire nel riarmo. Al contempo, Baku ha annunciato una massiccia esercitazione militare che si terrà tra il 2 e il 6 luglio. Le manovre dovrebbero coinvolgere 120 tra carri armati e altri veicoli corazzati, più di 200 pezzi di artiglieria e fino a 30 carri armati. L’esperto militare Azad Isazade, intervistato dall’agenzia Caucasian Knot, ha spiegato che l’obiettivo dell’esercito azero è semplice: “liberare i territori occupati”.

Manovre e schermaglie

La retorica bellicista non è una novità, come non è un segreto che da tempo il governo azero spenda ingenti somme di denaro per il riammodernamento delle forze armate. Più preoccupante le notizie che arrivano dalle zone al confine tra Armenia e Azerbaigian.

Le schermaglie tra le truppe dei due paesi sono da anni la norma quando si parla della situazione in Nagorno-Karabakh. Nel 2016, è scoppiata quella che è nota come guerra dei quattro giorni che ha causato la morte di centinaia tra civili e militari e ha permesso agli azeri di riconquistare alcune aree che erano sotto il controllo armeno.

L’escalation del 2016, la più grave da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco nel 1994, fa temere un nuovo conflitto generale sia imminente. L’allarme è suonato già nel luglio del 2017, con accuse da entrambe le parti per la violazione del cessate il fuoco.

Quest’anno il copione si è ripetuto. Negli ultimi giorni il ministero della difesa azero ha accusato l’esercito armeno di aver violato 118 volte il cessate il fuoco, bombardando le posizioni azere tra il 26 e il 27 giugno. A sua volta, solo una settimana prima il governo del Karabakh aveva accusato le forze armate di Baku di aver bombardato le postazioni armene per 150 volte tra il 17 e il 23 giugno.

La novità del 2018 è che le manovre militari si sono estese al confine tra il territorio dell’Armenia internazionalmente riconosciuto e l’exclave azera del Nakhichevan. Secondo quanto riportato dal portale Eurasianet le forze azere sono avanzate nella terra di nessuno tra i due paesi, prendendo, poi posizioni sulle alture che sovrastano il centro abitato di Areni. La manovra, oltre ad avere scatenato il panico tra gli abitanti del villaggio, ha destato preoccupazione a livello governativo, in quanto Baku sembra in grado di minacciare la strada M2, l’unico collegamento tra Erevan e la frontiera sud con l’Iran.

Una pace sempre lontana

Viene definito come un conflitto congelato quello tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, ma gli eventi degli ultimi anni continuano a dimostrare quanto sia erronea e pericolosa questa etichetta. Il rischio, infatti è quello di dare l’idea di una situazione irrisolta, ma sostanzialmente stabile. Quanto avviene di continuo alle frontiere è la dimostrazione che non è il conflitto ad essere congelato, ma le trattative di pace che dovrebbero portare a una sua risoluzione.

Dopo due anni di guerra, nel 1994 Baku e Erevan firmarono un accordo di cessate il fuoco che però non risolse la situazione giuridica del Nagorno-Karabakh. La regione, che in epoca sovietica aveva uno status di autonomia all’interno della RSS azera per la sua popolazione prevalentemente armena, durante il conflitto si è guadagnata l’indipendenza de facto, rimanendo, però de iure parte del nuovo Azerbaigian indipendente.

Nessuna forza politica sia interna che esterna ai due paesi è mai riuscita a elaborare una risoluzione del conflitto accettabile da entrambe le parti. L’Armenia ha continuato a far leva sul principio di autodeterminazione dei popoli, mentre l’Azerbaigian su quello di intergrità territoriale, il resto lo ha fatto la propaganda che reso inaccettabile all’occhio dell’opinione pubblica dei due paesi una qualsiasi forma di compromesso.

Il nuovo governo armeno salito al potere lo scorso maggio grazie alla cosiddetta Rivoluzione di velluto, pur rappresentando una grossa novità nel panorama politico del paese, non sembra avere un atteggiamento sostanzialmente diverso dai predecessori per quanto riguarda la risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh.

Uno degli aspetti dei giorni della rivoluzione armena è che nonostante la quasi totalità delle strade del paese fosse bloccata dai manifestanti, la M11 e la M12, le due vie di comunicazione tra Armenia e Karabakh, siano rimaste sgombre per permettere gli spostamenti all’esercito armeno in caso di attacco azero.

Il  nuovo primo ministro armeno, Nikol Pashinyan ha incontrato Aliyev a Mosca il 14 giugno nel corso della cerimonia di inaugurazione del mondiale. Il premier armeno ha scritto sul suo profilo Facebook che Putin lo ha presentato al presidente azero, ma che l’incontro non è andato al di fuori delle presentazioni. Ci vorrà ben altro se si vorrà veramente trovare una risoluzione del conflitto che avvelena la regione da trent’anni.