East Journal, 8 aprile 2020 di Carlo Alberto Franco

link all’articolo in originale

Le elezioni presidenziali in Nagorno-Karabakh dello scorso 31 marzo hanno segnato un momento importantissimo nella storia della repubblica de facto situata nella regione montuosa contesa tra Armenia e Azerbaigian. Sono state, infatti, le prime elezioni dal lontano 2012, le prime tenute con il nuovo sistema presidenziale e, per di più, sono state segnate dall’assenza di Bako Sahakyan, dal 2007 presidente e assoluto protagonista della vita politica nazionale.

La riforma costituzionale

Nel 2017, in seguito a un referendum popolare, il Nagorno-Karabakh è passato da un sistema semipresidenziale a uno presidenziale. La principale differenza sta nella divisione dei poteri: in base all’ordinamento costituzionale precedente la figura del presidente e del primo ministro erano due cariche separate, mentre in quello attuale scompare la figura del premier, i cui poteri passano al capo di stato.

Dietro questa manovra, dettata a prima vista dalla necessità di apportare aggiustamenti tecnici a un sistema istituzionale relativamente giovane, ci sarebbe stata l’intenzione del presidente uscente Bako Sahakyan di restare al potere, emulando per certi versi quanto sta facendo il collega Vladimir Putin. Infatti, oltre a venire rieletto presidente ad interim nei tre anni di transizione, Sahakyan ha ottenuto anche l’azzeramento delle cariche ricoperte fino ad allora, diventando così legalmente abilitato a candidarsi di nuovo per guidare il paese.

Un copione simile a quello già visto in altri stati, che tuttavia non si è ripetuto. Un anno dopo la modifica costituzionale in Nagorno-Karabakh, l’Armenia è stata protagonista della “Rivoluzione di velluto”, in seguito alla quale l’ormai ex-presidente Serzh Sargsyan si è visto costretto a rassegnare le dimissioni dopo che la folla inferocita è scesa in piazza per protestare contro il suo terzo mandato consecutivo. Timoroso di simili sviluppi in un paese la cui politica è legata a doppio filo a quella armena, Sahakyan ha quindi deciso di ritirarsi dalla corsa per le elezioni, dando il via libera a un rinnovamento della leadership.

Ritorno al passato

Nonostante i favorevoli auspici dettati dalle condizioni esterne, le elezioni presidenziali in Nagorno-Karabakh sono state un modo per le vecchie glorie della politica locale di tornare sotto i riflettori. Dei quattordici concorrenti, infatti, tra i principali figuravano Arayik Harutyunyan, primo ministro per dieci anni durante il mandato di Sahakyan, Vitaly Balasanyan, eroe di guerra ed ex-presidente del Consiglio nazionale di sicurezza e Masis Malayan, ministro degli esteri uscenti. Da segnalare inoltre la prima candidatura femminile, l’indipendente Kristin Balayan.

Con un’affluenza record del 73%, il 31 marzo la politica del Nagorno-Karabakh si è quindi apprestata a voltare pagina. Il primo turno non è stato tuttavia sufficiente a determinare un vincitore, data la necessità di una maggioranza assoluta per trionfare. Al primo posto è arrivato Harutyunyan, il quale ha totalizzato il 49,26%. A grande distanza è arrivato secondo Malayan, con il 26,4%. Nell’Assemblea nazionale – il parlamento locale in cui siedono 33 deputati  sono entrate cinque forze politiche, la cui più consistente è Patria Libera di Harutyunan, che ha conquistato ben sedici seggi. Il ballottaggio, previsto per il 14 aprile, sembra quindi essere una mera formalità per Harutunyan, a cui basterà ottenere un numero minimo dei voti ricevuti dai suoi avversari per governare il paese nei prossimi cinque anni.

Nonostante la grande partecipazione, una serie di fattori hanno macchiato il regolare svolgimento delle elezioni. In primis, il potenziale rischio di diffusione del coronavirus ha costretto il paese a chiudere le proprie frontiere. Ciò ha portato a uno svolgimento delle elezioni in assenza di osservatori internazionali, che ha pregiudicato il riconoscimento del risultato finale. Inoltre, come denunciato dall’Ombudsman, ci sono state molteplici segnalazioni di violazioni al regolare svolgimento del processo elettorale che suggeriscono che il voto di diversi elettori non sia stato spontaneo, bensì pilotato. A ciò va aggiunto il mancato riconoscimento del Nagorno-Karabakh e, conseguentemente, della legittimità delle sue elezioni a livello internazionale. Non destano, quindi, sorpresa le dichiarazioni dell’Azerbaigian e quelle di Peter Stano, portavoce della Commissione europea, che non hanno riconosciuto la legittimità delle elezioni.

Il destino della Repubblica

Considerando come praticamente sicura l’elezione di Hartunyan al prossimo turno, è possibile tracciare la futura traiettoria del Nagorno-Karabakh. Innanzitutto, va tenuto presente come qualsiasi decisione prenda il nuovo presidente, questa non possa prescindere da un confronto con Nikol Pashinyan, primo ministro dell’Armenia. Con una popolazione esigua e il mancato riconoscimento internazionale, la repubblica de facto non può prescindere dal supporto politico, economico e militare armeno. Va notato come, prima delle elezioni, Pashinyan si sia astenuto dal sostenere qualsiasi candidato, limitandosi a incontrare privatamente i favoriti, Hartunyan incluso.

Le elezioni presidenziali in Nagorno-Karabakh mostrano come, pur essendo uno stato non riconosciuto con tutte le incognite legate a questa situazione, la piccola repubblica prosegua il suo percorso di consolidamento istituzionale.

Oservatorio Balcani e Caucaso, 2 aprile 2020 di Marilisa Lorusso

link all’articolo in originale

Nonostante la pandemia di coronavirus, le autorità de facto del Nagorno Karabakh hanno deciso di andare al voto il 31 marzo per le elezioni parlamentari e presidenziali. Il Covid 19 non è riuscito – del resto – a fermare nemmeno la guerra

Le si potrebbero chiamare le prime elezioni plenarie: il 31 marzo le autorità de facto del Nagorno Karabakh hanno chiamato al voto 104.348 elettori per eleggere sia il nuovo Parlamento che il Presidente della piccola repubblica secessionista. Le elezioni presidenziali sarebbero dovute tenersi nel 2017, ma dopo un referendum costituzionale che ha trasformato il sistema semi-presidenziale in un sistema presidenziale, il parlamento de facto, cioè la locale Assemblea Nazionale, aveva rieletto Bako Sahakyan come presidente. Ora ci sarà un nuovo presidente questa volta con mandato popolare. Alla tornata del 31 marzo nessuno dei candidati ha superato il 50% delle preferenze, per cui si andrà al secondo turno il 14 aprile.

Le elezioni

Un totale di 14 candidati presidenziali, 10 partiti e 2 blocchi elettorali hanno partecipato a queste elezioni presidenziali e parlamentari. L’affluenza alle urne è stata del 73,5% (76.728 voti espressi con 2.625 schede non valide).

Per le presidenziali l’ex Primo Ministro (2007-2017) e ministro di Stato (2017-2018), leader del partito Madrepatria Libera Arayik Harutyunyan ha ricevuto 36.076 voti (49,26%) ed è seguito da Masis Mayilyan, ministro degli Esteri del Nagorno-Karabakh da settembre 2017 con 19.360 voti (26,4%) e Vitaly Balasanyan (ex Segretario della sicurezza nazionale) con 10.755 voti (14,7%). Gli altri 11 candidati hanno ricevuto tra 0,2% e 2,56% dei voti ciascuno.

Secondo i risultati preliminari delle elezioni parlamentari, cinque partiti si ripartiranno i 33 seggi nella de facto Assemblea Nazionale: il partito Madrepatria Libera di Arayik Harutyunyan, che ha ricevuto 29.688 voti o il 40,4% delle preferenze, Patria Unita del ministro della Difesa Samvel Babayan che ha sostenuto la candidatura di Masis Mayilyan alle presidenziali, con 17.365 voti o 23,63% delle preferenze, il partito Giustizia di Vitaly Balasanyan, candidato alla presidenza vicino alla vecchia guardia armena che si era distinto per gli attacchi a Pashinyan, con 5.865 voti cioè il 7,9%, la Federazione Rivoluzionaria Armena, guidata da David Ishkhanyan (4.717 voti o il 6,4%) e il Partito Democratico di Artsakh Ashot Ghulyan, presidente del Parlamento dal 2005, (4.269 voti o 5,81%).

Gli altri sette partiti e coalizioni politici hanno ricevuto tra lo 0,65% e il 4,5% dei voti, non sufficienti per superare le soglie del 5% e del 7% rispettivamente per partiti e coalizioni.

In attesa che prenda forma la nuova legislatura de facto e la nuova presidenza, si deve fare il però i conti con il presente.

Il voto e la pandemia

Erano di duplice natura le preoccupazioni su come questo voto avrebbe potuto contribuire a propagare il Covid 19. Da un lato si temeva che gli assembramenti elettorali potessero contribuire alla propagazione endogena del virus all’interno del corpo elettorale. Ma il timore forse ancora più fondato era che l’arrivo degli osservatori elettorali dall’estero fosse un detonatore pandemico.

Il Nagorno Karabakh si dichiara infatti estraneo alla pandemia. Ufficialmente nessun caso è stato registrato fino alla fine di marzo. Nell’ultima decade di marzo c’erano solo 3 persone in isolamento e una trentina in quarantena perché appena rientrati, ma il territorio secessionista, largamente isolato anche a livello regionale, sembrava essere rimasto periferico rispetto all’ondata epidemica.

L’aver invitato quindi più di 900 osservatori, di cui 300 dall’esterno del Karabakh, e principalmente dall’Armenia, appariva alla soglia del voto essersi trasformato in un giocare con il fuoco.

L’Armenia sta pagando un alto prezzo al Covid, con più di 500 contagi a fine marzo e un migliaio di persone in quarantena su una popolazione di nemmeno 3 milioni di persone.

La Commissione Elettorale ha adottato pertanto misure speciali per il voto. Gli scrutatori e tutto il personale coinvolto nel voto al seggio dovevano avere guanti, mascherina e disinfettanti a base alcolica per le mani. Per il voto e la registrazione dei votanti si sono dovute usare penne monouso. Gli osservatori elettorali hanno dovuto essere certificati sani per accedere al Karabakh. Quindi tampone prima di partire, e sostituzione a carico dell’organizzazione mandante dei possibili osservatori trovati positivi, perché – come ha dichiarato il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan  – il virus non entri insieme agli osservatori.

Anche l’Armenia, consapevole del proprio potenziale virale, come misura di tutela del Karabakh il 26 marzo ha chiuso con check point gli accessi al Karabakh. L’accesso al territorio secessionista è concesso per i residenti, i trasportatori con le loro merci, e osservatori elettorali e giornalisti per le elezioni.

Nonostante le misure adottate, diverse voci si erano levate nei giorni precedenti al voto perché fosse rimandato. Ancora il 26 marzo, il candidato Mayilyan si dichiarava pronto  ad accettare anche una decisione in questo senso dell’ultimo minuto. 

La pandemia e il conflitto protratto

Il 23 marzo il Segretario generale dell’ONU invocava  un cessate-il-fuoco mondiale per non aggiungere dramma al dramma, la guerra alla pandemia.

Il cessate-il-fuoco del conflitto in Nagorno Karabakh è datato 1994, ma dal 2011 la situazione ha continuato ad essere più instabile e gli scambi di fuoco sono quotidiani. Come esempio della quantità di violazioni registrate, l’autoproclamata Armata di difesa del Nagorno Karabakh ha accusato le forze armate azerbaigiane di 230 violazioni del regime del cessate il fuoco tra l’ 8 e il 14 marzo, con un totale di 2000 colpi sparati verso posizioni armene. Per posizioni armene si intendono sia le milizie karabakhi che l’esercito regolare armeno, schierato lungo i confini armeno-azerbaigiani e lungo la linea di contatto fra il Karabakh e l’Azerbaijan, che in assenza di riconoscimento non può essere considerato confine.

Il numero di vittime armene dall’inizio del 2020 è di 12 soldati e comprende coloro che sono stati uccisi da cecchini, artiglieria pesante o che si sono suicidati a causa delle dure condizioni di vita. L’ultimo incidente il 30 marzo: due militari feriti e un civile. Secondo il portavoce del ministero della Difesa  armeno S. Stepanyan lo scambio di fuoco si sarebbe registrato nel distretto Noyemberyan, della provincia di Tavush intorno alle 19.00 e nel corso della giornata dei colpi avrebbero raggiunto i villaggi di Baghanis e Oskevan, ferendo un ragazzino di 14 anni che era su un balcone.

La data è eloquente: non è bastata una pandemia a fermare il voto, come non basta per fermare le armi. Nessun cessate-il-fuoco del ’94 da rinvigorire nel quadro del cessate-il-fuoco mondiale: si continua a sparare. E questo nonostante il rischio elevatissimo di contribuire a congestionare il sistema sanitario nazionale, nonché di portare vettori di virus dalle prime linee agli ospedali, e vice versa. E il grande incubo dei paesi a leva obbligatoria, anche di quelli in pace, è che il virus raggiunga le caserme, enormi agglomerati di migliaia di residenti costretti a spazi abitativi condivisi, e spesso in condizioni assai poco igieniche e sicure. Ancor meno nelle trentennali trincee delle prime linee del Karabakh.

East journal, 26 febbraio 2020 di Eugenia Fabbri

link all’articolo in originale

Il Nagorno Karabakh è spesso considerato la bomba ad orologeria del Caucaso. Il conflitto che lo dilania da ormai trent’anni non è mai stato davvero congelato e sembra improbabile che nel breve periodo venga ristabilita la pace, anche a causa del frammentato coinvolgimento delle potenze internazionali, che utilizzano il conflitto per perseguire i propri interessi.

Il coinvolgimento ambiguo della Russia

La Russia è certamente il paese terzo più coinvolto e, insieme a Francia e Stati Uniti, presiede il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro creata nel 1992 per tentare di ristabilire la pace. Mosca è considerata un attore essenzialmente filo-armeno: i due paesi sono membri di diverse organizzazioni internazionali e fanno parte di una formale alleanza militare, il CSTO. Tuttavia, la Russia, pur garantendo assistenza militare a Yerevan, coltiva con l’Azerbaijan relazioni che includono la vendita di armi, da Baku chiaramente utilizzate anche nel confronto militare con l’Armenia. Tale ambivalenza è dovuta alla completa dipendenza in termini militari energetici e infrastrutturali di Yerevan nei confronti della Russia. Ciò permette a Mosca di perseguire la propria politica estera in completa autonomia, senza temere alcuna ripercussione da parte dell’Armenia.

La storica amicizia tra Turchia e Azerbaijan

Tra Turchia e Azerbaijan vi è un legame profondissimo, non solo politico, ma anche culturale. Sono entrambi paesi islamici e di lingua turca e la somiglianza tra i due popoli è tale che l’ex presidente azero Heydar Aliyev ha definito i due paesi “una nazione con due stati”. Sebbene inizialmente Ankara si fosse astenuta dal prendere posizioni nette nel conflitto, considerandolo una mera vicissitudine interna allo spazio post-sovietico, dal 1993 il suo avvicinamento a Baku è divenuto lampante: il confine tra Turchia e Armenia è stato chiuso e tra i due paesi non vi è ancora oggi alcun tipo di relazione diplomatica.

Iran, un possibile mediatore?

L’Iran è l’unica potenza regionale che potrebbe desiderare il raggiungimento di una pace che non comporti la vittoria unilaterale di uno dei due paesi sull’altro. Teheran è interessata ad evitare possibili escalation del conflitto, che potrebbero causare ulteriori flussi di rifugiati in un paese che non solo già ne ospita milioni, che presenta anche nel proprio territorio un’enorme minoranza azera.

Stati Uniti: tra pressioni interne e interesse nazionale

Il punto di vista statunitense sul conflitto è mutato nel tempo. In un primo momento hanno mantenuto una posizione filo-armena, chiaramente comprensibile dall’esclusione dell’Azerbaijan dal Freedom Support Act, un programma di aiuti varato da Washington nel 1992 a sostegno delle ex repubbliche sovietiche. La crescente rilevanza strategica dall’Azerbaijan, tuttavia, ha indotto gli USA a modificare la propria posizione, abolendo tale discriminazione nel 2001 e intraprendendo una politica dell’equilibrio che comporta il supporto finanziario di entrambi i paesi.

Quali prospettive di pace?

Tale coinvolgimento, multilaterale ed estremamente differenziato, impedisce ad oggi particolari sviluppi del conflitto. Anche un cambiamento negli assetti strategici internazionali che portasse al prevalere di uno dei due stati sull’altro probabilmente non sarebbe di per sé risolutivo e le relazioni tra i due paesi resterebbero congelate dalla frustrazione dello sconfitto. Di particolare interesse è un piano, avanzato nel 1992 dall’analista americano Paul Goble, che prevedeva una reciproca cessione territoriale, in seguito alla quale l’Armenia avrebbe rinunciato ai territori a maggioranza azera e alla striscia di terra che separa l’Azerbaijan dal Nakhchivan, ottenendo in cambio il definitivo controllo del Nagorno.

Tale compromesso fallì, fu l’Armenia in primis a rifiutarlo poiché avrebbe comportato la perdita del confine con l’Iran. Questo è un segnale importante, che richiama l’attenzione al ruolo che, al là dei delicati equilibri della politica internazionale, la disponibilità a collaborare tra i due attori direttamente coinvolti potrebbe avere nella risoluzione del conflitto. Probabilmente la vera chiave per ristabilire la pace nella regione è proprio lavorare sulla disponibilità dei due paesi a mediare, per giungere ad un compresso che a nessuno paia troppo iniquo.

Sicurezza Internazionale, del 20 febbraio 2020 di Italo Cosentino

articolo originale

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ritiene che per la risoluzione del conflitto del Nagorno-Karabakh sia necessario promuovere nuove idee. Ha rilasciato una tale dichiarazione sabato a margine della Conferenza di sicurezza di Monaco durante una sessione sul conflitto nel Caucaso meridionale.

“Per tutto questo tempo abbiamo ripetuto le stesse tesi. Penso che la comunità internazionale sia anche un po ‘stanca di questo. Quando sono diventato primo ministro dopo la rivoluzione di velluto, ho detto, e ora ripeto, che sono necessarie nuove idee per risolvere il problema” – ha osservato il capo del governo armeno.

Secondo Pashinyan, la comunità internazionale deve dichiarare chiaramente che non esiste alternativa a una soluzione pacifica al conflitto. “L’Armenia non rappresenta la posizione del Nagorno-Karabakh nel processo negoziale, ma so che l’Armenia e il Nagorno-Karabakh sono pronti a fare di tutto per garantire una pace duratura nella nostra regione” – ha affermato il premier armeno, che ha anche aggiunto di sentirsi responsabile per il mantenimento della pace nella regione. “Esorto il presidente Aliyev a fare lo stesso e partecipare alla creazione di sicurezza stabile e pace nella regione” – ha concluso.

Baku sarà in grado di avviare i negoziati con il Nagorno-Karabakh se Erevan smetterà di finanziare la regione ribelle e ritirerà le sue truppe da lì, ha risposto a breve giro di posta il presidente azero Ilham Aliyev, parlando alla conferenza di sicurezza di Monaco.

Secondo Aliyev, le parti in conflitto sono l’Armenia e l’Azerbaigian, e ciò può essere confermato dai copresidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE, mentre il Nagorno-Karabakh non è parte del conflitto. “Non parleremo con loro. Stiamo parlando con l’aggressore. Siamo pronti a parlare con il Nagorno-Karabakh se l’Armenia smetterà di finanziare questa formazione illegale,ritirerà tutte le sue truppe dal Nagorno-Karabakh e lascerà completamente il nostro territorio, e poi avremo argomenti per parlare con queste persone. Ma mentre [gli armeni] sono lì, non abbiamo motivo di discutere con loro” – ha detto Aliyev.

Il presidente azero ha affermato che il conflitto nel Nagorno-Karabakh tra Baku e Erevan dovrebbe tener conto del principio conservazione dell’integrità territoriale dell’Azerbaigian, riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il Nagorno-Karabakh ha fatto parte dell’Azerbaigian per una lunga parte della storia, ha affermato Aliyev, che ha aggiunto che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato quattro risoluzioni che chiedono il ritiro delle truppe armene dal Nagorno-Karabakh, ma non sono state attuate.

Dopo la sessione della Conferenza di sicurezza di Monaco sul conflitto nel Nagorno-Karabakh, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha illustrato, la sera di domenica 16 febbraio sulla sua pagina Facebook, i principi per risolverlo.

“Il Nagorno-Karabakh ha ottenuto l’indipendenza allo stesso modo dell’Azerbaigian. Il Karabakh è parte del conflitto e il processo negoziale, la risoluzione dei conflitti è impossibile senza di esso. Non c’è territorio, c’è sicurezza: il Karabakh non può rinunciare alla sua sicurezza. È impossibile ottenere una soluzione al conflitto in una o due azioni: durante il processo di negoziazione, abbiamo bisogno di “micro-rivoluzione”, “mini-rivoluzione”, e quindi di una svolta” – ha scritto Pashinyan.

Secondo il capo del governo armeno, qualsiasi soluzione al conflitto dovrebbe essere accettabile per i popoli dell’Armenia, del Karabakh e dell’Azerbaigian, e l’Armenia e il Karabakh dovrebbero fare di tutto per trovare tale opzione per risolvere il problema. “La questione del Nagorno-Karabakh non ha una soluzione militare. Se qualcuno afferma che la questione può essere risolta con mezzi militari, il popolo del Karabakh dirà che la questione è stata risolta molto tempo fa” – ha sottolineato Pashinyan.

Al termine di un conflitto durato oltre tre anni, nel 1994 l’Armenia ha conquistato il Nagorno-Karabach, regione autonoma dell’Azerbaigian a maggioranza armena, e sette distretti limitrofi, popolati invece solo da azeri. Da allora vige un precario cessate il fuoco. Baku chiede indietro i territori occupati (circa un quinto dell’intero Azerbaigian), mentre la regione si è proclamata indipendente con il nome di Repubblica di Artzakh. Erevan, che a livello internazionale non riconosce l’Artzakh, preme tuttavia affinché venga coinvolto nei negoziati, proposta cui Baku si oppone fermamente, ritenendo che le autorità di Stepanakert siano risultato dell’occupazione militare armena.

Voci globali, 15 gennaio 2020, di Violetta Silvestri

leggi qui l’articolo in originale

Ci sono piccoli territori nel mondo quasi dimenticati, o sconosciuti, dove la storia di scontri etnici continua a scrivere le sue pagine. Uno di questi è il Nagorno Karabakh, o Repubblica dell’Artsakh, incuneata nel territorio del Caucaso, intrappolata all’interno dell’Azerbaigian e stretta tra Armenia e Iran.

Indipendente de facto, con Stepanakert centro del potere politico, a livello giuridico resta territorio nazionale azero. Nessun Paese del mondo e nessuna organizzazione internazionale ha riconosciuto lo Stato come indipendente. Sullo sfondo, infatti, c’è una lunga e irrisolta guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del territorio.

La sua incessante ricerca di un proprio spazio politico, economico e di potere indipendente dai vicini rivali – Armenia e Azerbaigian – va avanti. Le prossime elezioni di aprile 2020 si preannunciano cruciali per la piccola e sconosciuta Repubblica dell’Artsakh.

Molta speranza è riposta in questa tornata elettorale. Si prevede, infatti, che il voto sarà il più libero nella storia del Karabakh, con più spazio per l’opposizione e meno interferenze da parte di Yerevan. L’opportunità è quella di diventare un Paese normale, mettendo fine anche all’influenza – ingerenza per molti cittadini del Karabakh – della stessa Armenia, alleata storica. Una strada piuttosto difficile, visto che questa piccola porzione di territorio rivendica la sua origine etnica armena e, addirittura, tra i candidati c’è chi sbandiera la soluzione dell’unificazione con Yerevan.
Un quadro complesso, quindi, che soltanto la Storia e l’osservazione della collocazione geografica possono in parte spiegare. La regione è a maggioranza armena che ne rivendica l’appartenenza, mentre Baku la considera parte inseparabile della propria nazione. Il Nagorno Karabakh rientra nei classici casi di geografia politica da manuale: è un’enclave per gli azeri (poiché si trova su quel territorio ma non si sottopone alla sua giurisdizione) e un’exclave per l’Armenia (la popolazione è a maggioranza armena ma la regione è staccata geograficamente dallo Stato di Yerevan).

In questo intricato scenario emergono i rigurgiti etnici della dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. E, soprattutto, sono ancora vivi i segni di anni di guerra civile mai completamente sopita. Per questo, uno dei propositi del 2020 nell’intricato quadro del Caucaso è proprio il raggiungimento di un’intesa – e della pace definitiva – tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh, per definire status e assetti dell’intera regione, scongiurando il pericolo di altri nuovi conflitti.

Per comprendere i motivi dei rapporti ancora molto tesi in questa aerea del Caucaso, bisogna tornare alla storia dei primi decenni del 1900. Il Nagorno Karabakh, popolato da armeni cristiani e da turchi azeri, è stato prima parte dell’Impero russo. Poi, dopo contese tra Armenia e Azerbaigian, nel 1920 il territorio è conquistato dai bolscevichi. Nel 1923 è diventato regione autonoma sotto il controllo dell’Azerbaigian, per volere di Stalin.

I venti di guerra sono arrivati nei concitati anni della dissoluzione dell’URSS. Dopo accese rivendicazioni tra il 1989 e il 1990 tra Yerevan e Baku – che si sono tradotte anche in drammatici episodi di vera e propria pulizia etnica nei confronti delle minoranze azere e armene nei due Stati – nel 1991 il Nagorno Karabakh ha dichiarato la sua indipendenza dopo un referendum.

La decisione, unilaterale e appoggiata soltanto dall’Armenia, ha di fatto innescato la guerra civile tra il 1992 e il 1994. Il bilancio è stato drammatico, senza portare a nessuna risoluzione duratura e condivisa. I morti sono stati circa 30.000 e i profughi 1 milione. Il cessate il fuoco e l’accordo, sostenuto dalla Russia, hanno decretato la vittoria dell’esercito armeno, a cui spettava il controllo sul Karabakh. Nella realtà, però, l’intesa non è stata mai ratificata.

Le conseguenze sono visibili ancora oggi. La tensione non è mai davvero finita, alimentata dai ricordi di pulizie etniche da entrambe le parti. E il problema della convivenza tra azeri e armeni in questa regione è di stretta attualità.

Lo stallo che dura da decenni è stato più volte interrotto dalla violazione del cessate il fuoco dall’una e dall’altra parte, con episodi di violenza. Nemmeno la creazione del cosiddetto gruppo di Minsk nel 1992 ha portato i frutti sperati. 12 nazioni guidate da Francia, Stati Uniti e Russia hanno lavorato con le parti in lotta per trovare una soluzione condivisa e duratura.

Nel 2016 ci sono stati nuovi scontri con uccisioni di centinaia di persone, che hanno gettato nuovamente nello sconforto chi sperava in una ripresa costruttiva dei negoziati. Deboli ma preziose speranze si sono riaccese nel corso del 2019.

A sostenere maggiormente le speranze di una svolta è stata l’elezione come Presidente armeno di Nikol Pashinyan nel corso della rivoluzione di velluto, un uomo considerato nuovo, con una storia alle spalle di rivolte per il cambiamento del proprio Paese, non contro le forze azere per la conquista del Karabakh.

Il  Governo di Yerevan ha dichiarato di essere pronto a cercare una soluzione di compromesso e Baku sembrava essere più aperta. Nel corso del 2019, infatti, ci sono stati diversi incontri tra le autorità dei due Stati rivali (almeno quattro stando alle cronache ufficiali) nei quali il clima è apparso più disteso e conciliante, proteso verso la ricerca di un dialogo e l’allontanamento della violenza.

I Governi armeno e azero hanno concordato di avviare progetti umanitari e di lasciare che giornalisti e parenti visitino i detenuti nelle rispettive capitali.

Ma il riavvicinamento non ha portato a soluzioni concrete e pienamente condivise. Soprattutto per quanto riguarda il ritiro delle forze militari armene nei territori rivendicati dall’Azerbaigian e la questione dell’integrità territoriale nazionale azera.

Yerevan, Baku e le autorità nella capitale del Nagorno-Karabakh Stepanakert continuano a fare richieste senza voler scendere a compromessi. Il principale nodo da sciogliere è sempre lo stesso: lo status della Repubblica dell’Artsakh.

L’Armenia appoggia la creazione e il riconoscimento di uno Stato indipendente. Baku è al massimo pronto a offrire l’autogoverno del Nagorno-Karabakh in Azerbaigian. Resta molto caldo anche il tema – e l’emergenza – dei territori adiacenti alla regione contesa. Gli azeri sono fuggiti da queste aree durante la guerra.

I coloni – per lo più armeni sfollati dallo stesso Azerbaigian – si sono di fatto trasferiti qui, con un piano di colonizzazione. Stepanakert, infatti, finanzia insediamenti che si sono espansi nella maggior parte dell’area tra Armenia e Nagorno-Karabakh. I coloni contribuiscono in modo significativo all’economia della regione separatista, principalmente attraverso l’agricoltura in forte espansione, e hanno forti legami con le case e le comunità che hanno costruito da zero.

Trovare una via da seguire che soddisfi gli interessi sia dei coloni che delle persone sfollate dalle aree adiacenti, e che implichi anche il ritorno degli azeri nelle terre dell’Azerbaigian, non sarà una sfida da poco.

Tra i propositi del 2020 c’è anche quello di riprendere i colloqui di pace in modo più concreto. L’anno sarà importante, considerando anche le elezioni in agenda nel Nagorno Karabakh che potrebbero andare a cambiare gli equilibri nei rapporti di potere e di dipendenza con l’Armenia.

In ballo c’è la stabilità di un’area, quella del Caucaso, spesso in bilico per strascichi di passate ingiustizie ancora irrisolte. E, soprattutto, c’è il desiderio di pace per le popolazioni coinvolte nell’ennesima guerra etnica.

Il caffè geopolitico del 31.12.2019 di Chiara Soligo

vai all’articolo in originale

In 3 sorsi – Ispirato dalla rivoluzione armena, il Nagorno-Karabakh inaugura una nuova stagione di dialogo e di apertura politica.

1. 2017: L’ANNO DEI CAMBIAMENTI POLITICI

Soffia il vento del cambiamento in Nagorno-Karabakh, il territorio storicamente conteso tra Yerevan e Baku. In vista delle prossime elezioni del 2020, la piccola Repubblica si sta aprendo alla competizione politica e al pluralismo delle idee. Le modifiche alla Costituzione del Karabakh, approvate con il referendum del 2017, rappresentano la premessa per il rinnovato clima di dialogo. Con la votazione, il sistema di Governo della Repubblica dell’Artsakh è stato trasformato da semi-presidenziale a presidenziale. La transizione alla nuova Costituzione avverrà nel 2020, quando scadrà il mandato dell’attuale Parlamento. Bako Sahakyan, che nel 2017 avrebbe dovuto terminare il suo regolare mandato come Primo Ministro, è stato nominato dal Parlamento Presidente ad interim fino al 2020, per accompagnare la Repubblica nella transizione dalla vecchia alla nuova Costituzione. Sahakyan, pur avendo dichiarato di non voler competere nelle prossime elezioni del 2020, sta ora godendo di grandi poteri senza essere stato regolarmente votato dagli elettori. L’attuale Presidente ha avuto un ruolo rilevante nel permettere al Governo di Yerevan di controllare da vicino il Karabakh, condannato a una realtà politica stagnante e priva di cambiamento.

2. LE CONSEGUENZE DELLA RIVOLUZIONE DI VELLUTO

La Rivoluzione di Velluto in Armenia (2018) ha rimescolato le carte in tavola anche a Stepanakert. Con la destituzione del Presidente armeno Sargsyan, perfino l’élite politica del Karabakh si è trovata disorientata e priva del suo più prezioso sostenitore. Alle elezioni del 2020 l’influenza esercitata da Yerevan sarà quindi molto inferiore rispetto a quanto accaduto negli anni passati. Sono in competizione formazioni politiche con diverse agende, alcune legate all’establishment e altre portatrici di rinnovamento. Il Movimento 88, guidato dal veterano di guerra Vitali Balasanyan, si presenta come l’unico partito in grado di “difendere la madre patria”. Libera Patria, sotto l’egida di Harutyunyan, sostiene la tradizionale élite di Stepanakert. Rimane incerto il ruolo di formazioni politiche minori, quali il Partito Democratico dell’Artsakh, il Partito Comunista dell’Artsakh e la Federazione Rivoluzionaria Armena, che risentono della scarsità di risorse amministrative. Inoltre, la candidatura di Samvel Babayan, che si era presentato come figura di spicco all’interno della nuova opposizione, è stata considerata costituzionalmente inaccettabile a causa della sua assenza dal Karabakh per più di dieci anni.

3. QUALI SARANNO GLI SCENARI FUTURI?

Il neo-premier armeno Nikol Pashinyan, in occasione del primo incontro ufficiale con il Presidente azero Ilham Aliyev a Vienna (marzo 2019), si era dichiarato disposto ad intraprendere un dialogo costruttivo per la risoluzione del conflitto in Karabakh. Le speranze suscitate in quell’occasione sono però state spente dai toni assunti negli ultimi mesi dal dialogo tra Baku e Yerevan. I due leader, infatti, negli ultimi giorni di novembre hanno intrapreso un botta e risposta a distanza, cercando di scaricare l’uno sull’altro le responsabilità dei principali massacri della storia dei due Paesi, quello di Khojali e quello di Sumgait. Il fatto che, ad oggi, non siano ancora arrivati a una corretta ripartizione delle responsabilità, dimostra che, nonostante le parole di conciliazione pronunciate ad inizio 2019, la riappacificazione è ancora molto lontana e ciascuno dei due Paesi guarda principalmente ai propri interessi, ma non alle proprie colpe, passate e presenti. Rimangono dunque aperti gli scenari per l’anno 2020 a Stepanakert: se da un lato l’Armenia reclama a gran voce il territorio, dall’altro il suo minore controllo sul processo elettorale del Karabakh potrebbe portare alla vittoria di un leader non disposto a seguire incondizionatamente i dettami di Yerevan. Un allentamento della presa da parte armena potrebbe avere ripercussioni sull’influenza esercitata su Stepanakert da Baku, che aspirerebbe a ottenere maggiore libertà di azione. La posta in gioco è quindi molto alta per tutti i protagonisti di questa storica contesa, e gli esiti delle elezioni potranno condizionare in modo duraturo il destino del Karabakh.

Ilfattoquotidiano.it del 31.12.2019 di Pierfrancesco Curzi

vai al link dell’articolo in originale

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ma che si protrae nel tempo con periodiche violazioni del cessate-il-fuoco. L’autoproclamata Repubblica è oggi una lingua di terra in territorio azero, ma abitata da armeni, schiacciata, come Erevan, tra due potenze economiche cresciute enormemente negli ultimi decenni: Turchia e Azerbaigian

Il primo gennaio del 1990 era un lunedì. Per le strade di Baku, allora capoluogo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, una folla di alcune decine di migliaia di persone intonava canti anti-armeni: “Gloria agli eroi di Sumqait” e “Lunga vita a Baku senza gli armeni”. Era l’annuncio di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve: era iniziato il Pogrom di Baku, la soluzione finale per liberare quel territorio dagli scomodi vicini. Soprattutto, era scattato quello che i testimoni del tempo chiamano “Il gennaio nero”.

Il grosso dei cittadini di origine armena residenti a Baku, circa 250mila, se n’era andato nei due anni precedenti, da quando, cioè, l’ideologia settaria aveva prodotto le violenze nella città di Sumqait, a nord dell’attuale capitale azera. In quel primo gennaio di trent’anni fa nella città appollaiata sulla sponda occidentale del mar Caspio rimanevano poche decine di migliaia di armeni, per la maggior parte persone vulnerabilivecchi e ammalati. Le modalità repressive sembravano prendere spunto dai blitz nazisti nei ghetti ebraici di mezzo secolo prima: “I vertici azeri avevano formato delle squadre il cui scopo era entrare nelle nostre case senza alcun rispetto, dandoci il tempo di raccattare le poche cose e andarcene, facendo firmare un documento in cui si concedeva la vendita dell’immobile. A questi funzionari la gente doveva consegnare tutti i soldi e i beni preziosi e ad ogni casa svuotata seguiva una sorta di marchio all’esterno con il termine ‘pulita’”.

Saro Saryan ha combattuto ed è rimasto ferito nel conflitto interregionale scoppiato nel 1988 tra Armenia e Azerbaigian per la contesa del Nagorno Karabakh. Prima di imbracciare il fucile, Saro ha vissuto sulla sua pelle il dolore dei pogrom e la fuga verso una nuova esistenza, scegliendo proprio il Nagorno Karabakh. Oggi vive con la sua famiglia a Shusha, secondo centro dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, e accoglie gruppi di turisti che si spingono nel profondo sud dell’Armenia per conoscere la storia complessa ed affascinante di una terra non riconosciuta ufficialmente a livello internazionale: “Fummo costretti ad andarcene, io e la mia famiglia, ma ad altri andò peggio, sono storie e momenti pesanti da ricordare – racconta Saryan – Quello tra il 1988 e il gennaio del 1990 è chiamato il pogrom di Baku ed è ricordato nella storia, ma di pogrom nei nostri confronti ce ne sono stati tanti, sin dal 1918, divisi tra Azerbaigian e Turchia. Da più di un secolo i due paesi vicini cercano di ‘conquistarci’ imponendoci le loro regole. Noi, in mezzo, resistiamo. Il loro obiettivo è legare la Turchia a tutte le ex repubbliche islamiche, fino a KazakistanTurkmenistan e le altre. Noi armeni, in questo senso, li disturbiamo, per questo siamo costretti a subire le loro continue provocazioni, come il mancato riconoscimento del genocidio armeno. Sì, io ho combattuto e sono rimasto ferito due volte e alla causa armena del Karabakh ha contribuito anche mio figlio”.

La storia si ripeteva nel profondo Caucaso, terra di tensioni interetniche e religiose. Stando agli storici, non esiste un numero certo sulle vittime causate dal pogrom di Baku, sebbene alcuni sostengano la tesi di un numero vicino alle 300 unità. Il grosso dei morti e dei feriti si verificò tra il 12 e il 19 gennaio e l’arrivo, tardivo, dell’esercito di Mosca il 20 gennaio contribuì a chiudere una delle pagine più drammatiche della storia sovietica. Al pogrom di Baku si lega, inevitabilmente, la questione del Nagorno Karabakh, questa fetta di territorio grande come la Basilicata contesa tra le due ex repubbliche sovietiche rivali.

I massimi esperti di strategia militare e di geopolitica lo definirebbero un conflitto ‘a bassa intensità’, ossia con un uso limitato della forza. Applicato alla guerra del Nagorno Karabakh, in effetti, il concetto può avere un senso. Questa lingua di territorio al confine con l’Iran, da sempre al centro di una contesa territoriale che si perde nella notte dei tempi, dal 1988 ad oggi vede due eserciti affrontarsi in una sorta di guerra di trincea, con operazioni militari limitate a periodi di schermaglie più o meno intensi, dove a farla da padroni sono i cecchini. In trent’anni di conflitto il bilancio non raggiunge le 4mila vittime. Gli anni più sanguinosi sono stati quelli tra il 1990 e il 1994, quando un cessate-il-fuoco coordinato dall’Osce sembrava aver chiuso una crisi esplosa proprio mentre il gigante sovietico si stava dissolvendo.

Geograficamente e politicamente la regione del Nagorno Karabakh è considerata territorio azero, anche se da sempre abitato da armeni. Azerbaigian e Armenia, appunto: due nazioni che di certo non si sono mai amate e la cui convivenza è stata forzatamente anestetizzata dall’influenza dei soviet sin dai tempi di Stalin che, tra il 1920 e il 1923, decise di creare l’oblast autonomo del Nagorno Karabakh, assegnando la regione a Baku.

Forte dello scompenso istituzionale che avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e alla nascita di quindici (compresa la Russia) ex repubbliche in stati indipendenti, tra il 1991 e il 1992, la popolazione armena della regione (98% del totale) decise di fondare la Repubblica autonoma dell’Artsakh. A quell’epoca il conflitto armato tra Azerbaigian e Armenia era già iniziato, eppure la vera scintilla che innescò una crisi ormai senza fine e senza soluzione scoccò esattamente trent’anni fa. A Baku, così come a Sumqait, Ganja e altri centri a ridosso del confine conteso della regione autonoma, tra cui la ghost-town di Agdam. Decine di migliaia di persone di etnia armena furono costrette a lasciare le proprie case e riparare proprio in Nagorno Karabakh (altre scelsero mete diverse, tra cui la stessa Erevan, quella che di lì a breve sarebbe diventata la capitale dell’Armenia), in particolare a Stepanakert (Xankendi), attuale capitale dell’Artsakh, Shusha e Goris.

La possente Armata Rossa, ormai all’epilogo come l’intero sistema sovietico, caduto definitivamente il giorno di Natale del 1991, cercò invano di ripristinare la normalità, ma ormai il danno era stato fatto. La scintilla decisiva del conflitto tra Baku e Erevan è legata proprio al pogrom del gennaio 1990. Da allora, nonostante il cessate-il-fuoco del 1994, la guerra non conosce fine. Dall’inizio del terzo millennio, l’anno con più morti è stato il 2014 (72, soprattutto militari, pochissimi i civili). La recrudescenza dei fatti di sangue si ripete con puntuale drammaticità. Le analogie con altre crisi internazionali si sprecano. Per molti versi la situazione nel Caucaso somiglia alla guerra dei Balcani dei primi anni ’90, ma anche ai troubles nordirlandesi per numero di vittime e per le contrapposizioni religiose e, infine, alla questione palestinese. In questi giorni nella Repubblica autoproclamata dell’Artsakh sono partite le iniziative per celebrare i drammatici eventi dei primi di gennaio del 1990: commemorazioni e raccolte fondi a favore dei rifugiati armeni scappati dalle violenze. Tra gli organizzatori degli eventi c’è soprattutto Saro Saryan.

Dalla fine ufficiale del conflitto in Nagorno Karabakh, nel 1994, ad oggi le cose a livello geopolitico sono cambiate molto. Sia la Turchia che l’Azerbaigian non sono più i paesi che erano allora, soprattutto a livello economico, mentre l’Armenia è sostanzialmente rimasta al palo. La guida della dinastia politico-affaristica azera della famiglia Aliyev, è passata da Heidar ad Ilham, quest’ultimo dal 2003 ad oggi sempre alla guida di uno stato arretrato, addirittura povero, diventato, in pochi anni, una potenza mondiale. Il moderno Azerbaigian si è trasformato in una sorta di emirato, alla stregua di Bahrein Qatar, e Baku in una città da sogno proibito come Dubai. La scoperta e lo sfruttamento di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale nella sua porzione del mar Caspio hanno reso l’ex repubblica caucasica una meta affaristica, diversamente dai vicini. Questo distacco, al momento incolmabile, tra Azerbaigian e Armenia rischia di aumentare il tenore del conflitto cristallizzato in Nagorno Karabakh. Intanto, la Repubblica dell’Artsakh si prepara a un altro evento molto atteso: “A breve, in aprile, si terranno le elezioni, sia per il presidente che per il parlamento – conclude Saryan – Non dovrebbe cambiare molto, ma intanto la leadership nel nostro territorio riesce a garantire l’unità politica e sociale di un territorio contro l’invasione azera. Non ci arrenderemo mai”.

Osservatorio Balcani e Caucaso, Marilisa Lorusso (16 dic 19)

Il conflitto in Nagorno Karabakh dura da oltre un quarto di secolo ma quest’anno sembra essere arrivato ad un punto di svolta, grazie alla Rivoluzione di Velluto armena. Un’analisi

Il conflitto del Nagorno Karabakh è il più lungo nella storia dell’ex Unione Sovietica. Iniziato con scontri azero-armeni in Azerbaijan quando ancora doveva crollare il muro di Berlino si trascina ancora oggi. Sfociato in guerra sanguinosa, sopita ma non conclusa con il cessate il fuoco del 1994, ha un volto de jure e uno de factoDe jure alle due repubbliche federate socialiste sovietiche di Armenia e Azerbaijan sono succeduti i due stati indipendenti omonimi, riconosciuti internazionalmente nei confini dei precedenti sovietici. De facto però c’è anche il Nagorno-Karabakh – nei confini dell’ex regione autonoma dell’Azerbaijan più una cintura di sicurezza che sottrae ulteriore sovranità a Baku – entità però non riconosciuta da nessuno.

Nel 2016 dopo anni di progressivo surriscaldarsi del conflitto tornò la guerra e con essa uno spostamento, seppur minimo, della linea di contatto fra gli eserciti a favore dell’Azerbaijan, che cominciò quindi a riguadagnare terreno. Si ruppe un equilibrio costruito intorno alla percezione che la linea del ’94 fosse consolidata e mutabile solo per mezzi non militari. Nel 2018 si ruppe un secondo punto di equilibrio: l’immutabilità della situazione sul terreno era data anche dalla continuità dei negoziatori. E in Armenia con la Rivoluzione di Velluto sono cambiate le carte in tavola.

Armenia e Karabakh, i gemelli diversi

La Rivoluzione di Velluto ha portato al governo dell’Armenia per la prima volta in vent’anni un non-Karabakhi, e per la prima volta nella storia della repubblica un politico che non si è formato al fronte combattendo contro gli azeri, ma in Armenia combattendo contro il proprio governo. Nikol Pashinyan rappresenta una figura di rottura che vuole dare un segno di discontinuità rispetto alle scelte dei governi precedenti anche per quanto riguarda la soluzione politica per il Karabakh. Insomma, una rivoluzione – sempre di velluto e non violenta – anche per la questione più scottante della politica estera/quasi interna dell’Armenia.

La svolta è arrivata con una dichiarazione importante: Pashinyan ha dichiarato che la soluzione dovrà essere accettabile per gli armeni, per i karabakhi, e per gli azeri. Un’affermazione importante e inedita per un leader armeno che non viene ricambiata da Baku e che gli ha causato non poche critiche internamente.

La Rivoluzione di Velluto è rimasta tra l’altro circoscritta all’Armenia e non si è estesa al Karabakh, dove rimangono forti i legami  con la vecchia leadership armena e alla linea dettata da quest’ultima.

Ad agosto Pashinyan ha sentito l’esigenza di rinsaldare il rapporto fiduciario con il Karabakh, che ha preso il nome secessionista di Artsakh, dichiarando durante una visita nel paese de facto: “L’Artsakh è Armenia, punto”. Ne è seguita una bomba diplomatica: la leadership azera che aveva adottato per un certo periodo una tattica attendista e che aveva poi cautamente aperto all’eventualità che si potessero creare nuovi spazi di negoziazione ha dimostrato tutto il proprio sdegno dichiarando che con queste premesse si tornava alle posizioni pre-rivoluzionarie. Una serie di dichiarazioni massimaliste incrociate è parsa effettivamente far precipitare nuovamente la situazione nel quadro di non-negoziabilità che ne ha fatto un conflitto così protratto. Ma non è proprio così.

Gli spazi per i negoziatori

I co-presidenti del Gruppo di Minsk hanno infatti cercato di non perdere l’occasione offerta dal grande spiraglio negoziale che non si presentava da più di vent’anni: a Yerevan siede un politico che ha una rinnovata volontà di investire energie nella risoluzione del conflitto, che non deve il proprio insediamento al passato bellico, e che ha – cosa fondamentale – una grande popolarità, requisito fondamentale per cominciare a fare serpeggiare nell’opinione pubblica una forma di accettazione di concessioni necessarie per un compromesso.

Attivissima la Russia che ha una posizione ambigua e versatile rispetto alla questione del Karabakh. Non è politicamente equidistante fra le parti perché è alleata e garante della sicurezza armena, ma ha mantenuto una grande cautela per quanto riguarda le relazioni con il Karabakh. E come è garante dell’Armenia è in qualche modo anche garante delle negoziazioni fra le parti. La cessazione delle ostilità è ancora oggi basata sull’accordo del 1994, firmato con diretto intervento russo. La Dichiarazione di Mosca del 2008 sulla risoluzione del conflitto è ad oggi l’unico documento che porta le firme dei due presidenti armeno e azero.

Nel 2016 era stata la Russia a convocare i Capi di Stato Maggiore azero e armeno a Mosca per garantire la fine delle ostilità, ed è a Mosca che nel 2019 si è tenuto uno degli incontri – ormai piuttosto cadenzati – fra i ministri degli Esteri armeno e azero. Sarebbe stato – stando alle dichiarazioni del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov – durante questo incontro che, alla presenza dei co-presidenti del Gruppo di Minsk si sarebbe concordato un documento non ufficiale ma “specifico” che segna una svolta importante.

La svolta di fine anno

Il documento del 2019 non è pubblico e il suo contenuto può essere ricostruito solo seguendo le dichiarazioni e le misure che a spizzichi e bocconi emergono. Riguarderebbe scambi umanitari, inclusi i rimpatri delle salme, dei prigionieri di guerra, e contatti fra esponenti della stampa dei due paesi e dei cittadini. E che sia un documento già in fase di implementazione si deduce dal fatto che nella seconda metà di novembre sono cominciate a girare indiscrezioni su una visita incrociata di giornalisti armeni in Azerbaijan e vice versa. L’agenda della visita sarebbe mantenuta segreta per tutelare la sicurezza e l’identità dei partecipanti allo scambio, il che dà la misura del livello di conflittualità fra le comunità coinvolte.

La conferma è poi arrivata dai ministeri degli Esteri: le delegazioni si sono incontrate a Tbilisi, alla stessa ora di sera hanno attraversato i confini georgiano-armeno e georgiano-azero e partendo quindi dal territorio georgiano hanno compiuto i due tour. Per la delegazione di giornalisti azeri la visita si è estesa al Karabakh, per quella armeno-karabakhi oltre Baku, Quba e Ganja c’è stato l’incontro con la rappresentanza degli azeri sfollati dal Karabakh.

La svolta politica rimane comunque lontana: non è scontata, non è nemmeno davvero immaginabile dal ginepraio delle proposte, dei veti incrociati che hanno proliferato in questa negoziazione che pare eterna. Ma questo è stato l’anno di nuovi protagonisti, sia ai vertici sia a livello di società civile, con un processo che faticosamente diventa più inclusivo. Nuovi protagonisti, nuove narrazioni, nuovi interpreti possono voler dire una presa di responsabilità più condivisa e più consapevole.

Tempi.it (15 ottobre 2019) di Rodolfo Casadei

link dell’articolo originale

«Non siamo noi a volere il conflitto». Intervista al ministro dell’Economia dell’Artsakh, Levon Grygorian, in visita in Italia

L’Artsakh è una piccola repubblica assediata fra i monti del Caucaso. La abitano, la governano e la difendono i locali abitanti armeni che nel settembre 1991 dichiararono a loro volta la propria indipendenza per non essere assorbiti nell’Azerbaigian che un paio di settimane prima aveva deciso di costituire uno stato indipendente dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il territorio coincide con lo storico Nagorno Karabakh, che nel 1921 Stalin assegnò all’Azerbaigian nonostante fosse abitato in grandissima maggioranza da armeni che avrebbero preferito far parte della vicina repubblica sovietica di Armenia. Fra il 1991 e il 1994 nell’Artsakh e negli adiacenti territori azeri si è combattuta una guerra sanguinosa che è stata sospesa da un armistizio il 5 maggio 1994. Grazie anche al sostegno delle forze armate della repubblica di Armenia (a sua volta divenuta indipendente il 21 settembre 1991), gli armeni del Nagorno Karabakh hanno cacciato le forze armate dell’Azerbaigian dal loro territorio e occupato alcune aree azere adiacenti per creare una continuità territoriale con la vicina Armenia e per proteggere da eventuali attacchi di artiglieria la capitale Stepanakert. Lungo i 150 chilometri di trincee che separano le postazioni armene da quelle azere le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da venticinque anni a questa parte: uno stillicidio di vittime caratterizza le cronache dal fronte. Nell’aprile di tre anni fa l’Azerbaigian per la prima volta dalla firma dell’armistizio tentò un’operazione militare su larga scala che causò decine di morti e si concluse in uno stallo.

La repubblica di Artsakh non è riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, nemmeno dall’amica e confinante Armenia, ma i suoi 150 mila abitanti hanno bisogno di tutto per contrastare il parziale isolamento nel quale sono costretti a vivere da un quarto di secolo. Così nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e dell’Infrastruttura industriale della repubblica, Levon Grygorian, si è recato in visita ufficiosa in Italia per incontrare realtà della società civile italiana interessate a una cooperazione su più piani per lo sviluppo economico e umano del suo paese. Ha avuto colloqui con esponenti di associazioni imprenditoriali del Veneto e della Lombardia e in particolare ha perfezionato il gemellaggio fra l’Istituto Alberghiero che è parte dell’Istituto scolastico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e una struttura che sta nascendo a Stepanakert. Il ministro è stato ospite del ristorante didattico Saporinmente, annesso all’Istituto Alberghiero, e lì ci ha concesso un’intervista prima di continuare la sua visita.

Ministro, gli occhi di tutto il mondo sono rivolti con preoccupazione a ciò che sta succedendo nel nord della Siria: la Turchia ha promosso un’operazione militare volta all’occupazione di una fascia di territorio siriano. Cosa ne pensa?  

La guerra non è mai la soluzione, porta solo conseguenze negative. Noi siamo un popolo che conosce per esperienza diretta, e non per le immagini televisive, di quanta sofferenza sia causa la guerra, sappiamo che non risolve i problemi. Il governo dell’Artsakh non approva in alcun modo questo intervento militare.

Venticinque anni dopo la firma dell’armistizio che ha congelato la guerra del Nagorno Karabakh ancora non si intravede una soluzione definitiva al conflitto, e nel frattempo la Repubblica di Artsakh che si è costituita nel 1991 non è riconosciuta dai paesi membri dell’Onu. Come fate fronte a questa situazione di isolamento istituzionale?

La guerra non l’abbiamo voluta noi, non siamo stati noi a iniziarla. Al momento del collasso dell’Unione Sovietica abbiamo chiesto quello che chiedevano tutti i popoli dell’ex Urss: autodeterminarci, e nel nostro caso noi avremmo voluto unirci alla Repubblica di Armenia. Il governo azero ha rifiutato di riconoscere la nostra autodeterminazione e ha risposto con la guerra. Siamo sopravvissuti agli attacchi, abbiamo difeso e consolidato il nostro territorio, abbiamo firmato il cessate il fuoco del 1994. Da allora abbiamo operato su due fronti. Abbiamo ricostruito le città bombardate e distrutte, abbiamo organizzato le istituzioni della repubblica e abbiamo chiesto di essere riconosciuti a livello internazionale. Per il riconoscimento sappiamo che ci vorrà ancora tempo; nell’attesa continuiamo a costruire il nostro paese, e guardiamo con ottimismo al futuro: ne è una prova questa mia missione in Italia. Gli studenti che parteciperanno agli scambi con l’Italia appartengono alla generazione che non ha vissuto i giorni della guerra, e questo è un segno della nostra vitalità. Come sapete, i negoziati per la pace sono condotti dal cosiddetto gruppo di Minsk, il cui ufficio di presidenza è composto da rappresentanti di Francia, Russia e Stati Uniti. Noi non siamo presenti in questo organismo dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e i nostri interessi sono rappresentati indirettamente dall’Armenia, che invece ne fa parte.

Quali sviluppi ci sono stati dopo la crisi dell’aprile 2016, quando sembrava che il conflitto con l’Azerbaigian dovesse ricominciare su larga scala?

Abbiamo imparato molto da quella brutta esperienza. Oggia la nostra difesa è migliorata e ancora stiamo lavorando per avere forze armate ancora più efficienti. Non abbiamo altro che il nostro esercito a difenderci. Oggi come negli anni Novanta, non siamo noi che vogliamo la guerra: il nostro conflitto con l’Azerbaigian va risolto con la diplomazia. Ma come negli anni Novanta e come nel 2016, siamo pronti a difenderci. L’offensiva di tre anni fa mirava a sfondare il centro del nostro schieramento attirando le nostre forze agli estremi della linea del fronte, ma i nostri ufficiali hanno saputo interpretare la tattica nemica e non sono caduti nella trappola.

Quali sono i paesi maggiormente amici della Repubblica dell’Artsakh?

 Non facciamo preferenze, siamo aperti a tutte le relazioni, specialmente coi popoli europei. Non intendo fare nomi.

Che bilancio fa della sua visita in Italia che si sta concludendo?

Il bilancio è positivo. Siamo venuti in Italia per approfondire la conoscenza del sistema delle PMI e per prendere contatti per poterlo replicare nel Nagorno Karabakh: il Nord Italia ha una grande tradizione di piccola e media impresa, ed è un modello molto adatto alla nostra economia. Ci interessa anche collaborare in progetti per migliorare l’educazione e l’istruzione professionale nel nostro paese. Per entrambi gli obiettivi, abbiamo trovato interlocutori in Veneto e in Lombardia, specialmente in Brianza. Torniamo in patria dopo aver fatto una esperienza intensa e grande, che ci permetterà di approntare una piattaforma di collaborazione con l’Italia.

L’anno prossimo si terranno elezioni presidenziali nell’Artsakh. Che significato ha questo appuntamento politico?

Per ogni paese le elezioni sono un appuntamento di grande importanza. Non è certo la prima volta che i cittadini della repubblica sono chiamati alle urne, e in tutte le occasioni passate gli osservatori internazionali hanno potuto verificare che si è trattato di elezioni trasparenti, oneste e libere. Nel 2020 alzeremo ancora di più il livello di trasparenza democratica di tutto il processo elettorale.

Il manifesto, 8 ottobre 2019 di Yurii Colombo

link articolo

Torna la tensione. Mosca è nella posizione più scomoda: alleata dell’Armenia ma con interessi irrinunciabili in Azerbaigian

Torna alta la tensione tra Armenia e Azerbaigian i due paesi ex sovietici da sempre in conflitto per il controllo dell’enclave del Nagorno-Karabakh divenuta repubblica filo-armena indipendente dall’Azerbaigian nel 1991.

La contesa provocò una lunga guerra tra i due paesi tra il 1992 e il 1994 che costò la vita a oltre 50mila persone, segnata da pogrom e violenze inaudite sulla popolazione civile.

Dopo una pausa di quasi 3 anni degli scontri alle frontiere e una serie di incontri di pace a Minsk mai decollati veramente, la situazione è peggiorata drasticamente nelle ultime settimane. L’escalation sta avvenendo sullo sfondo di dichiarazioni estremamente dure da parte dei leader dei due paesi. In risposta alle parole del presidente armeno Nikol Pashinyan che ha affermato recentemente «il Karabakh è Armenia e punto», Ilham Aliyev, il suo omologo azero, ha risposto a muso duro qualche tempo dopo affermando alla riunione del Club di Valdai giusto l’opposto: «Il Karabakh è Azerbaigian, punto esclamativo!» Ma non stanno volando solo parole tra due paesi, ma già da agosto anche proiettili e scambi di salve di cannone.

La portavoce del ministero degli esteri armeno Anna Naghdalyan ha denunciato ieri una nuova escalation nella zona di conflitto del Nagorno-Karabakh, accusando la parte azera di «deliberato aggravamento della situazione». «A seguito di recenti incidenti, un soldato delle forze armate armene è morto e altri tre sono rimasti feriti», ha detto Naghdalyan, esortando Baku di «astenersi da qualsiasi azione provocatoria lungo il confine internazionale armeno-azero».

A sua volta, il ministero della difesa dell’Azerbaigian ha riferito che solo in un giorno, dal 4 al 5 ottobre, gli armeni avrebbero violato il cessate il fuoco più di 20 volte. E un soldato azero sarebbe stato ucciso negli scontri. La risoluzione n.853 adottata dal Consiglio di sicurezza Onu sul conflitto ha dato implicitamente ragione agli azeri contro le pretese armene, sostenute dalla Federazione russa, di staccare l’enclave e annettersela. Il 29 luglio 1993, in particolare, l’Onu confermava la «sovranità e integrità territoriale dell’Azerbaigian», condanna «il sequestro della regione di Agdam e di tutte le altre regioni occupate di recente della Repubblica dell’Azerbaigian» e chiedeva «il ritiro immediato, completo e incondizionato della partecipazione nel conflitto delle forze di occupazione». Tuttavia Pashanin intervenendo all’ultima sessione generale dell’Onu lo scorso 25 settembre, è tornata a gettare benzina sul fuoco su una questione rimasta per tanto tempo in stand-by.

«Le autorità azere non intendono risolvere questo conflitto. Invece, vogliono sconfiggere il popolo del Nagorno-Karabakh. Non vogliono scendere a compromessi. Il loro obiettivo è la vendetta dopo dei tentativi fallito di aggressione contro il popolo del Nagorno-Karabakh negli anni ’90 e 2016» ha detto il leader armeno. Nella partita si è subito infilato il presidente turco Erdogan, per note ragioni nemico giurato degli armeni, e schieratosi quindi subitaneamente con il leader azero. «È inaccettabile che il Nagorno-Karabakh e le aree circostanti, che sono il territorio dell’Azerbaigian, siano ancora occupate, nonostante tutte le risoluzioni adottate», ha replicato Erdogan.

A trovarsi nella posizione più scomoda ora è Putin. Da sempre la Russia ha basi militari in Armenia ed è alleata strategica di Yerevan. Tuttavia sin dal crollo dell’Urss, Lukoil e altre imprese petrolifere russe detengono lo sfruttamento di parte dell’oro nero che sgorga a Baku. Un affare da oltre 2,5 miliardi di dollari annui a cui Mosca non vuole rinunciare. A questo si aggiunge l’ormai stretta alleanza con la Turchia. Per questo il presidente russo ha moltiplicato i contatti con le parti in causa perché la tensione non scivoli inesorabilmente verso il conflitto armato.